Sì, lo stop dell’impianto si poteva evitare. A confermarlo oggi sono stati direttamente il procuratore della Repubblica Luigi Gay, i suoi sostituti e il questore di Potenza, Giuseppe Gualtieri, davanti ai membri della Commissione bicamerale d’inchiesta sui rifiuti che fino a venerdì sarà in trasferta in Basilicata. Tema dell’incontro, tra le altre cose, la questione del sequestro del Centro Oli di Viggiano che dal campo giudiziario e industriale sta sconfinando in quello politico. Alla conferma dei sigilli da parte del tribunale del Riesame Eni ha reagito avviando le procedure di cassa integrazione per 354 dipendenti e annunciando le lettere di sospensione contrattuale e degli ordini di lavoro con i fornitori del Centro Oli. Scelte rispetto alle quali perfino FederPetroli ha espresso stupore e contrarietà, parlando espressamente di un “suicidio aziendale”. Del resto, in passato le attività del centro sono state fermate per periodi ben più lunghi dei giorni intercorsi dal sequestro ad oggi.

I sindacati hanno incontrato l’azienda ma il Cane a sei zampe va dritto per la sua strada e naturalmente i dipendenti chiedono di riavviare lo stabilimento. Il tutto, ovviamente, diventa materia per lo scontro politico, che in questa vicenda ha già visto il premier attaccare i magistrati potentini le cui indagini hanno portato alledimissioni del ministro Federica Guidi e alle mozioni di sfiducia contro di lui. In risposta, Renzi li ha nuovamente incalzati chiedendo di arrivare presto a sentenza per “riavviare un progetto fermo a causa delle indagini con 400 dipendenti da domani in Cig”. Quindi il punto nodale della questione è: chi ha spento il centro Oli della Val D’Agri?

Il procuratore di Potenza ha ribadito che la chiusura si sarebbe potuta evitare. Ma già nell’ordinanza che il Tribunale aveva emesso il 29 marzo scorso era stato chiarito che il sequestro era con facoltà d’uso in regime ridotto. E come tale “non preclude l’attività aziendale, serve a renderla esercitabile nel rispetto di valori primari di salvaguardia della salute e dell’ambiente”. E ancora: “In caso di accoglimento del sequestro, il pm si riserva di adottare tutte le soluzioni opportune atte a salvaguardare – in rapporto di reciproca compatibilità – l’esigenza di tutela della salute da una parte e quella produttiva-occupazionale dall’altra”, si legge a pagina 868. Che specifica: “Deve infatti valutarsi positivamente la possibilità di un mantenimento della facoltà d’uso per taluni beni del complesso aziendale previa esecuzione da parte dei responsabili dell’impianto di specifiche prescrizioni”.

Parole che sono state ripetute oggi, spiegando ai parlamentari che quel sequestro è stato mirato e chirurgico proprio per evitare la chiusura delle attività, fatto salvo il rispetto di prescrizioni da parte di Eni. I pm hanno scelto così di fermare il pozzo Molina2, dove sarebbero stati reiniettati illecitamente i reflui di produzionecambiando la classificazione del rifiuto in “non pericoloso”, e due serbatoi di raccolta e stoccaggio acque, l’impianto di smaltimento di Tecnoparco. Quelli sì sequestrati, perché “corpo del reato” e per il rischio di reiterazione dello stesso. “È evidente che si poteva evitare la cassa integrazione e anche di innescare strumentalmente la protesta”, attacca Paola Nugnes del M5S.

Nell’ordinanza i magistrati indicano anche la via per consentire ad Eni e Tecnoparco di proseguire le attività: “Il sequestro preventivo delle vasche e l’impianto sotto sequestro – si legge a pagina 869  – possono essere compensate dall’autorizzazione della facoltà d’uso a condizione che i reflui liquidi prodotti e miscelati dal Cova siano caratterizzati da codici rifiuto appropriati”. L’ordinanza di sequestro si conclude così: “La facoltà d’uso pertanto viene concessa a condizione che vengano rispettate tutte le prescrizioni sopra esplicitate, ovvero a condizione che vengano eseguiti gli interventi diretti all’esclusivo fine dell’eliminazione della situazione di pericolo, sotto il controllo dei Cc Noe e delle autorità amministrative competenti in materia”.

Diametralmente opposta la versione dell’Eni, ferma nel contestare l’inchiesta nel merito. Sostiene di fatto che i reflui reiniettati non siano tossici come ritiene invece la Procura di Potenza, e che non dovevano essere trattati diversamente come rifiuti speciali. Rispetto a questa linea difensiva aderire alle richieste di modificare le modalità di produzione e ottemperare le prescrizioni della Procura sarebbe un segnale di debolezza. Ma non c’è solo questo.

In una nota Eni sostiene che sarebbe praticamente impossibile, secondo le analisi tecniche svolte dai loro ingegneri, continuare a produrre secondo il disciplinare indicato nel decreto di sequestro, senza violare comunque la legge e senza trasformare il Centro Oli in un impianto di smaltimento dei rifiuti, cosa che richiederebbe in ogni caso tempi lunghi e investimenti ingenti. “Anche in tale assurdo caso teorico, stante l’impossibilità di re-iniettare l’acqua, la stessa dovrebbe essere smaltita in discariche autorizzate previo trasporto con migliaia di autobotti, con un ingente impatto territoriale. Inoltre, per i volumi in questione, sarebbe impossibile mantenere la produzione attuale del Centro”. Così l’azienda, oltre a procedere per ricorso in Cassazione, torna a chiedere un incidente probatorio nell’ambito del giudizio, ossia una consulenza tecnica sul campo “in pieno contraddittorio tra consulenti del giudice, della procura e di Eni che permetta di chiarire la vicenda e la conformità dell’impianto”. Infine il paradosso: se Eni non reiniettasse nei pozzi violerebbe la legge comunque perché l’Autorizzazione integrata ambientale (Aia) autorizzata con legge regionale obbliga il centro a reiniettare. Così Eni incorrerebbe in un secondo reato.

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