È un rito inquietante e arcaico tornato, però, prepotentemente di moda negli ultimi tempi: la statua del santo patrono della città o della borgata che durante la processione si ferma e si inchina sotto l’abitazione del principale boss mafioso locale. Una sorta di antico segno di rispetto tutto interno a Cosa nostra, indirizzato soprattutto ai capimafia detenuti, ma che non viene visto di buon occhio dai boss in libertà. Il motivo? Le processioni con l’inchino destano troppo clamore mediatico e rischiano di compromettere le attività dell’associazione criminale. È uno dei retroscena emersi dall’ultima operazione antimafia in provincia di Catania, che ha portato al fermo di 28 persone appartenenti a tre clan dell’hinterland etneo.
“Non abbiamo bisogno di tutta questa visibilità e della società civile che si muove: non vogliamo pennacchi, anzi meno si parla di noi meglio è”, era stato lo sfogo del boss di Paternò, intercettato dalle cimici piazzate dai carabinieri del Ros. E in effetti è proprio in provincia di Catania che sono andati in onda i più recenti esempi di processioni con inchino davanti casa dei boss. A San Michele di Ganzaria, per esempio, durante la processione del Venerdì Santo, il corteo che sosteneva la statua del Cristo Morto ha deviato il percorso originario della manifestazione religiosa, fermandosi lungamente sotto casa del boss detenuto Francesco La Rocca. Un evento talmente esplicito che il sindaco della cittadina si era tolto la fascia tricolore in segno di dissenso, mentre la procura di Caltagirone ha messo sotto inchiesta i dieci portatori della statua per turbativa dell’ordine pubblico.
Stessa scena alcuni mesi fa a Paternò, dove la processione in onore di Santa Barbara, patrona della città, si è fermata e inchinata davanti casa di un noto pluripregiudicato locale, mentre alcuni altoparlanti mobili riproducevano la colonna sonora del Padrino. Anche in quel caso il video dell’omaggio al boss aveva fatto il giro del Paese, ed è per questo motivo che i padrini più navigati ancora in libertà non vedono di buon occhio simili manifestazioni.
“Cosa nostra è contraria a inchini e omaggi ai boss, perché attraggono l’attenzione dei media, mentre la criminalità organizzata in Sicilia vuole rimanere sotto traccia”, ha spiegato il generale Giuseppe Governale, che ha coordinato l’indagine antimafia della Dda di Catania. “Dietro una calma apparente – continua – si può nascondere meglio una forte dinamicità criminale, che emerge grazie alle operazioni delle forze dell’ordine e all’inchiesta della Procura”.
L’inchiesta dei pm Agata Santonocito e Antonino Fanara ha bloccato una possibile guerra di mafia nella Sicilia orientale, tra i clan Santapaola – Ercolano di Catania, La Rocca di Caltagirone e Nardo di Lentini. “Se abbaia la cagnolina suona la chitarra”, dice intercettato uno degli arrestati ai suoi uomini, che si esercitano a sparare con i kalashnikov in aperta campagna. Il messaggio è chiaro: “Se gli altri si muovono, noi spariamo”. Tra i ventotto uomini fermati dal Ros dei carabinieri c’è anche Francesco “Coluccio” Santapaola, figlio di Salvatore, a sua volta cugino di Nitto, il capo dei capi di Cosa nostra a Catania.