Trivelle, sfiducia: nulla pare in grado di riportare i talk show alle ampie platee di un tempo. Così Ballarò e Dimartedì, ancora ieri sera, sommati insieme hanno marciato sui 3,3 milioni di spettatori, divisi grosso modo a metà (il che rivela una miglior tenuta di Floris perché il suo programma, sulla commerciale La7, è più frequentemente interrotto dalla pubblicità). Un tempo per Ballarò erano consueti i 4 milioni e passa di spettatori. E comunque, al di là dei saliscendi da una settimana all’altra e da una rete all’altra, “l’acqua – come direbbe Bersani – è questa qua”.
Il punto è che senza grandi contenitori di idee politico-cultural-sociali non possono esserci grandi ascolti per i contenitori di chiacchiere politico-cultural-sociali.
Queste, come racconta, con la consueta lucidità di stile e concetti, Alfredo Reichlin su l’Unità odierna, erano strettamente intrecciate alla democrazia dei partiti (che, quando esistono, si differenziano dalle fazioni appunto per questo: le idee). Sicché lo spettatore che si affacciava a un dibattito politico ne era in qualche modo davvero partecipe perché quelle idee che vedeva confrontarsi coincidevano con le mappe valoriali sulle quali anch’egli tracciava la sua rotta giornaliera. Potevano, così, essere dibattiti fra “signori”, cioè fra leader, intellettuali, etc, ma non erano faccende significative solo per “lor signori”. Una simile coincidenza fra le coordinate valoriali delle élites politiche e quelle delle persone immerse nelle loro faccende di ogni giorno è probabilmente irripetibile, perché da quando le condizioni sociali sono cambiate e dacché ci è entrato (e sta entrando) il mondo in casa, siamo privi dei riferimenti di classe e di Stato. Da qui lo svanire degli apparati ideali e dei racconti di salvazione collettivi, perché per avere idee politiche devi sapere identitariamente con chi socialmente coincidi e dialetticamente a chi istituzionalmente ti rivolgi. Evaporate le identità e lo schema dialettico che davano sostanza alla politica dei partiti, è scomparso il “racconto epico” della politica. E i talk show sono automaticamente diventati una aggregazione di raccontini.
Simmetricamente, gli spettatori non li seguono, ma li spilluzzicano, con fedeltà d’ascolto che si aggirano in media attorno a un settimo della loro intera durata. Si può ovviamente sospettare che la attuale, smisurata durata dei talk show attuali non aiuti gli spettatori a evitare lo zapping. Ma resta il fatto che quella ventina scarsa di minuti che in media oggi gli spettatori effettivamente seguono di Ballarò o Dimartedì (ma il discorso vale anche per gli altri) sono davvero pochi rispetto all’oretta buona che in media si vedevano gli spettatori del Santoro di una volta. Un rimedio probabilmente non c’è. E forse non è neanche appassionante rincorrerlo. Semplicemente, abbiamo i talk show adatti al momento. Anche se il momento non è particolarmente adatto ai talk show.