E’ venuto a mancare Fulvio Roiter, uno dei pochi fotografi italiani conosciuti anche dal largo pubblico che non si occupa di fotografia nello specifico. Volutamente non parlo qui del suo percorso professionale, dei suoi successi, del suo legame con Venezia e con un altro fotografo, Paolo Monti. Non parlo qui di un uomo sanguigno, appassionato, non facile ma pieno di slanci e di energia. Le cronache, da ieri, sono già piene delle sue foto più celebri e della sua biografia.
Ma prima della sua morte, cosa si diceva di Fulvio Roiter? Tra una parte degli addetti ai lavori egli era derubricato a valente costruttore di ottime cartoline, per dirla chiara. E forse, guardando alla produzione di alcuni libri come il più celebre, Essere Venezia, in qualche misura potrebbe venire da pensarlo. Beninteso, un libro come Essere Venezia è una pietra miliare da un punto di vista editoriale, un successo planetario da 700.000 copie che ha polverizzato alcuni record, ma fotograficamente un prodotto patinato e superprofessionale destinato però a incantare più i turisti stranieri che gli appassionati di fotografia. Ma non basta, non ci si può fermare in superficie, alla superficie “pop”, per bollare Roiter come “fotografo facile di pronta beva buono per vendere”.
Se tutto il percorso di un fotografo dimostra solo la sua “furbizia commerciale” non mi faccio illusioni sul suo reale spessore autoriale, ma quando invece mi rendo conto, guardando indietro, che egli ha in passato ampiamente dimostrato la caratura da vero maestro per originalità e profondità, e solo poi ha virato in altre direzioni, allora il “fenomeno” diventa interessante e degno di attenzione. E occorre farsi delle domande.
Restando a Roiter, per esempio, nel 1956 vinse addirittura il premio Nadar (premio attribuito ogni anno al miglior libro fotografico tra quelli pubblicati nel mondo) con Ombrie. Terre de Saint-François, volume magnificamente stampato in heliogravure da La Guilde du Livre di Losanna. Foto in bianconero, delicatissime, elegantissime nella loro apparente semplicità, composizioni da pelle d’oca, raffinatezza, gusto, equilibrio e originalità. Gioielli buoni anche per gli occhi più esigenti.
Dunque sembra quasi si parli di due vite, se non di una “doppia vita”.Eccola, allora la domanda: quanto – e se – la coerenza è essenziale ed è un valore assoluto per un fotografo?
Mi guardo bene dall’azzardare una risposta – chi sono io per farlo? – ma un paio di considerazioni a margine le butto lì. Intanto mi viene in mente il detto, un po’ icastico ma intrigante, secondo cui “solo i cretini sono coerenti”. Come dire che chi non cambia mai idea e non si mette mai in discussione potrebbe semplicemente essere un po’ – per così dire – limitato.
Ma restiamo al terreno fotografico: la coerenza mantenuta nel tempo potrebbe (dico potrebbe) fare a pugni con una caratteristica genetica del buon fotografo: la curiosità.
Curiosità che alimenta la passione, o viceversa, fate voi. Curiosità che porta a battere nuove piste, scoprire nuovi orizzonti e impreviste possibilità. Accettando in questo il rischio di fare anche qualche ruzzolone. C’è in corso alla Casa dei Tre Oci di Venezia una mostra di Helmut Newton, universalmente noto per le foto dall’erotismo elegantemente duro. E’ il suo marchio di fabbrica, ci ha costruito una fortuna editoriale, mediatica ed economica; ma una sua vera passione era la fotografia di paesaggio, che praticava quasi clandestinamente cercando nebbie all’alba e aria aperta. Come l’immenso Richard Avedon praticò anche il reportage: quando fu assassinato John F. Kennedy, per esempio, non resistette all’istinto di fiondarsi in Time Square per documentare le reazioni dei passanti alla notizia appena diffusa. E vogliamo parlare poi – altra questione – di certe operazioni commerciali, spesso tristi e raffazzonate marchette, che alcuni grandi maestri accettano di confezionare facendosi del male?
Anche i fotografi che dimostrano una tenuta maggiore rispetto a un ipotetico concetto di coerenza, a ben guardare, ogni tanto si mettono in gioco. Altrimenti si mummificherebbero.
Per dire, uno forse dei più coerenti, Josef Koudelka, a un certo punto, ormai già ampiamente consacrato (poteva vivere sugli allori…), si è innamorato del formato fotografico panoramico ed è quasi nato una seconda volta. Esempi ce ne sono a decine. Insomma, se un fotografo ci sta dicendo: “Io vi ho già dimostrato ciò di cui sono capace e il mio talento, ora lasciatemi fare quello che decido io, nel bene e nel male, e non giudicatemi per questo”, noi cosa gli possiamo rimproverare?
La certezza dei risultati non è, a priori, nel pacchetto.Oppure i risultati ci sono e sono buoni, ma buoni per altri e non più per noi. Ecco. Tendiamo sempre ad affermare la validità di una cosa quando ci rassomiglia e coincide con le nostre aspettative, poi appena la cosa “disobbedisce” siamo lì col rimprovero.
Ma il bianconero del Roiter anni ’50, però…