“Se i consumatori non hanno appetito non si può dare la colpa a chi produce cibo”, ha dichiarato la Cina. La metafora riguarda lo squilibrio fra domanda e offerta di acciaio mondiale, assai sbilanciato (ormai da anni) dalla parte dell’offerta. Ed è scontro sul mercato globale dell’acciaio. “Il vertice di alto livello organizzato lunedì dall’Ocse a Bruxelles è finito con un muro contro muro: di fronte alle accuse di una trentina di Paesi, la Cina ha respinto con veemenza ogni responsabilità per i problemi del settore dell’acciaio, rifiutando di collaborare a un piano globale anti-crisi”, si legge su Il Sole 24 Ore.
La Cina continua a produrre ed esportare senza sosta quantità imponenti di acciaio che determinano la crisi della siderurgia internazionale.”Le esportazioni dell’industria siderurgica cinese hanno assunto dimensioni gigantesche. E i prodotti si riversano sui mercati internazionali a prezzi sempre più bassi, inferiori non solo ai costi di produzione delle travagliate imprese europee, ma negli ultimi tempi addirittura al di sotto di quelli sostenuti dalle stesse acciaierie cinesi: secondo testimonianze raccolte dalla Reuters, alcuni fornitori starebbero accollandosi perdite fino a 32 dollari per tonnellata, pur di sbarazzarsi di prodotti che in patria non riescono a vendere”, scrive Sissi Bellomo su Il Sole 24 Ore.
Ma qualcosa di recente sta cambiando e le fonti specializzate lo hanno segnalato. In queste settimane infatti la Cina sta alimentando la domanda interna di acciaio, tanto che si assiste ad un rialzo del prezzo delle materie prime. E infatti, si legge su Investire Oggi, “la novità è che il governo intende stimolare la crescita con un sostegno alle infrastrutture, ravvivando il settore delle costruzioni, che è alla base della produzione del metallo. Secondo Credit Suisse, la domanda in Cina potrebbe aumentare del 10% nel 2016“. Tutto bene dunque per l’Ilva? Si aprono prospettive di ripresa grazie alla Cina per il gigante di ferro in agonia? Niente affatto.
Lo spiraglio di ripresa riguarda solo il mercato interno della Cina, la quale potrebbe sanzionare (in seconda battuta) con “dazi equivalenti”le importazioni di acciaio europeo (ad esempio negli acciai speciali) se l’Europa dovesse (in prima battuta) sanzionare la Cina difendendo con dazi protezionistici il proprio mercato siderurgico interno. Ma forse la Cina non ne avrebbe neppure bisogno visti i costi notevolmente più bassi del’acciaio cinese. Il contraccolpo ben più grave è che la Cina possa imporre dazi alle merci di qualità (a partire dai prodotti agroalimentari protetti da marchi di qualità) che l’Europa è in grado di produrre e per le quali eccelle.
Riassumiamo il ragionamento: l’unico mercato siderurgico che cresce è quello cinese e l’Ilva ne rimarrà fuori specialmente se passerà la linea rivendicata a Bruxelles da quasi tutte le forze politiche: ossia dazi contro la Cina. Linea a cui ha dato la sua adesione anche il sindaco di Taranto, Ippazio Stefano, convinto di fare una buona scelta. Quella che si prospetta è una tragica beffa per chi crede nella politica dazi: il mercato siderurgico sta per riprendere quota proprio in Cina su input della pianificazione statale di Pechino, che ha le risorse per investire. E a restarne fuori non saranno certo le acciaierie cinesi. Mentre una guerra commerciale potrebbe congelare gli accordi di esportazione ad esempio dei “prodotti food” in Cina, firmati dall’Italia due anni fa. E lì i consumatori hanno appetito, per riprendere la metafora cinese. Attenzione quindi a difendere l’Ilva con una miope politica dei dazi: chi di dazio colpisce, di dazio perisce.