Sei anni fa era tornato indietro con la memoria alla notte del 27 luglio 1993: le bombe nelle basiliche di San Giovanni Laterano e San Giorgio in Velabro a Roma, e negli stessi istanti il centralino di Palazzo Chigi isolato da un inquietantissimo black out. “Ebbi paura che fossimo ad un passo dal colpo di Stato”, era stata la confessione di Carlo Azeglio Ciampi, il presidente della Repubblica emerito che guidava il governo mentre le bombe targate Cosa nostra avevano lasciato la Sicilia per materializzarsi nel resto del Paese. Uno dei periodi cruciali della recente storia d’Italia, considerato tessera fondamentale di quel complesso puzzle che risponde al nome di Trattativa tra pezzi dello Stato e Cosa nostra. Ed è proprio davanti alla corte d’assise di Palermo che sta processando politici, boss e ufficiali dei carabinieri per il patto segreto tra mafia e pezzi delle Istituzioni, che dovrà comparire Ciampi, oggi novantaseienne.

Per ascoltare la testimonianza dell’ex capo di Stato, giudici, pubblici ministeri ed avvocati si sposteranno al palazzo di giustizia di Roma per le udienze del 15 e 16 giugno prossimo. A deciderlo Alfredo Montalto, il presidente della corte d’assise palermitana, alla fine di un’udienza brevissima, che prevedeva l’inizio del contro esame di Massimo Ciancimino, teste principale del processo, che però ha dato forfait per motivi di salute. Nell’udienza capitolina saranno ascoltati anche l’ex premier Giuliano Amato e il magistrato Liliana Ferraro, che prese il posto di Giovanni Falcone al vertice degli Affari Penali del ministero della giustizia dopo la strage di Capaci. Già il 15 dicembre del 2010 Ciampi era stato interrogato dal procuratore Francesco Messineo, dall’aggiunto Antonio Ingroia e dai sostituti Paolo Guido e Nino Di Matteo, che è l’unico pm rimasto in carica all’interno del pool Stato – mafia della procura di Palermo.

Durante quell’interrogatorio, che venne poi secretato, l’ex presidente riavvolse indietro il nastro dei ricordi, per tornare all’estate del 1993: gli attentati di Milano e Roma, il centralino di Palazzo Chigi isolato proprio durante le esplosioni e – poco dopo – la decisione di non rinnovare oltre trecento provvedimenti di carcere duro per detenuti mafiosi. Secondo l’atto d’accusa della procura di Palermo, la mancata proroga di quei provvedimenti di 41 bis rappresenta uno degli oggetti fondamentali della Trattativa con Cosa nostra. A rivendicare quella decisione, compiuta a suo dire in “completa autonomia”, fu il giurista Giovanni Conso, ministro della Giustizia del governo Ciampi, deceduto la scorsa estate mentre era ancora indagato dai pm palermitani per false informazioni al pm.

Altro punto della deposizione che attende l’ex presidente della Repubblica è rappresentato dall’avvicendamento tra Nicolò Amato e Adalberto Capriotti al vertice del Dap (dipartimento amministrazione penitenziaria): il primo era considerato esageratemente duro, e dunque inflessibile nell’ottica di un dialogo con Cosa nostra, mentre il secondo era coadiuvato da Francesco Di Maggio, nominato nonostante fosse sprovvisto di titoli perché considerato dall’accusa più favorevole alla Trattativa.

E se sei anni fa Ciampi aveva risposto a tutte le domande dei pm siciliani, pieno di “non ricordo” era invece il verbale di Oscar Luigi Scalfaro, altro capo di Stato emerito, ascoltato sempre nell’interrogatorio del dicembre 2010 e poi due anni dopo. Diverso il caso di Giuliano Amato: al vertice del governo nel giugno del 1992, dovrà spiegare alla corte perché nel suo esecutivo Vincenzo Scotti non venne riconfermato come ministro degli Interni. Al Viminale arrivò invece Nicola Mancino, che è imputato al processo sulla Trattativa per falsa testimonianza.

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