25 aprile, Elsa l’ex staffetta bambina: “Lottai coi partigiani, ma nessuno ci credeva: mi guardavano come fossi una poco di buono”
Il racconto di Elsa Pelizzari, nome di battaglia Gloria, volontaria a 14 anni: "Avevo passato molto tempo sulle montagne circondata da uomini e la gente mi umiliò per anni sospettando chissà cosa". Rischiò la vita fino agli ultimi giorni prima della Liberazione. Il 22 aprile 1945 fu catturata dai nazisti. Poi un autista la graziò, salvandola dal campo di sterminio
Quando nel 1959 una bambina di 13 anni visitò per la prima volta una mostra sui lager nazisti, decise di scrivere una lettera: finalmente qualcuno racconta cos’è successo. E Primo Levi rispose: “Questa è la lettera che noi sopravvissuti aspettavamo. Non possiamo più tacere”. I racconti dei campi di concentramento parevano incredibili. E coloro che parteciparono alla Resistenza non sempre ebbero più fortuna. Le donne, soprattutto. Elsa Pelizzari, nome di battaglia Gloria, per quasi 10 anni, a guerra finita, fu vittima di occhiate di biasimo e malelingue. “Avevo lottato assieme ai partigiani – racconta a ilfattoquotidiano.it – lassù sulle montagne, circondata da tanti uomini, e quando tornai a casa la gente mi guardava come fossi una poco di buono. Fu l’umiliazione più grande che abbia mai dovuto sopportare”. Dopo la Liberazione Elsa provò anche a trovare lavoro, al cotonificio che aprirono a Roè Volciano, provincia di Brescia. “Mi presero sì, ma come operaia, perché essendo stata partigiana non ero degna di stare in ufficio”.
Elsa viene dalla Valsabbia e oggi nel Bresciano la conoscono tutti come la staffetta bambina. Aveva 14 anni quando cominciò a collaborare con i partigiani, prima portando i loro messaggi, “perché sei piccola, mi dicevano, e nessuno farà caso a te quando attraverserai i posti di blocco”. Iniziò con il gruppo Nico Fiamme Verdi, brigata Perlasca, 12 ragazzi e lei, la più piccola, che allora era soprannominata la Nigrina. Poi lavorò anche con la 122esima Brigata Garibaldi e con la Matteotti, e successivamente si fece assumere a Salò come segretaria, al sindacato dell’agricoltura. Divenne staffetta a tempo pieno, doveva scovare informazioni utili per la lotta di resistenza. “All’inizio mi davano una paga, ma poi i soldi finirono e io continuai come volontaria. Patimmo la fame, io, mia madre e mia sorella, ma non pensai mai di lasciare“.
La paura c’era, c’era sempre, tra lei e le SS spesso c’era solo la sua bicicletta. “Non era facile per niente, si viveva giorno per giorno con la consapevolezza che si poteva venire catturati, torturati o uccisi come tanti nostri compagni – spiega Elsa – ma è dalla paura che nasce il coraggio e così si andava avanti”. Fino all’ultimo, fino al 22 aprile del 1945, tre giorni prima che il Comando di liberazione nazionale Alta Italia proclamasse l’insurrezione di tutti i territori ancora occupati dai nazifascisti. A Tormini, porta d’accesso alla Valsabbia, si fermò un’autocolonna tedesca: “Ottanta veicoli, truppe della Wehrmacht e SS, diretti al Brennero – ricorda – il nostro comandante, Nico, ebbe l’ordine di trattare con loro la resa, e lasciargli un salvacondotto fino al Brennero se si fossero arresi, ma sapeva che se avesse mandato un partigiano lo avrebbero ucciso. Quindi mi offrii volontaria per trattare, parlavo un po’ di tedesco perché all’epoca lo insegnavano a scuola. Mi diedero una borsa con del pane e andai a Tormini, all’osteria dove i comandanti stavano bevendo del vin brulè, che era ancora freddo, per parlare con un comandante della Wehrmacht. Lui mi ascoltò, e poi mi disse che doveva accompagnarmi al comando delle SS”.
L’ufficiale SS ascoltò Elsa parlare, ma poi rispose alle condizioni poste dai partigiani sparando una raffica di mitra, che per un soffio non la colpì. “Quindi mi chiusero in una stanza e mi interrogarono per 7 ore. I particolari sono troppo penosi da ricordare – racconta Pelizzari – ma quando finì mi fecero salire su un camion”. Alla guida c’era un uomo dai capelli brizzolati, tedesco, di mezza età. “Gli dissi che somigliava a mio padre, anche se non era vero, e lui mi guardò quasi con compassione. Gli ricordavo sua figlia, che non vedeva da 3 anni. Quando il camion svoltò per la valle spalancò la portiera, e mi gridò Raus!. Mi lasciò scappare. Sapeva che altrimenti mi avrebbero deportata in un campo di sterminio”.
Elsa si salvò, ma quella non fu l’unica volta che si trovò a un passo dalla morte. “Due anni sono lunghi, ne sono capitate tante. Ma non ho rimpianti”. Delusioni sì. “Molte partigiane come me sono state discriminate. Dopo la guerra la mia amica Maria Boschi, nome di battaglia Stella, dovette cercare lavoro in Svizzera perché qui nessuno la assumeva, e io a 18 anni mi vergognavo a uscire di casa per come mi guardavano. Per molto tempo l’Italia ci ha dimenticate. Ma è a questo che servono le giornate come il 25 aprile. La politica oggi dimostra di aver disimparato ciò che ci ha lasciato la Resistenza, ma è ai giovani che dobbiamo guardare. E’ a loro che dico tenete le mani e la faccia pulita, solo così potrete difendere la vostra libertà”.
Per le foto in questa pagina si ringrazia la sezione Anpi di Brescia