Il mio turno è finalmente giunto, non posso più nascondermi né tantomeno celarlo al grande pubblico: è arrivato il momento in cui anche il sottoscritto faccia outing. Questo post, infatti, sarà ricordata dalle generazioni future come quello nel quale ho svelato il mio più grande contributo al mondo dello sport (chissà a cosa avete pensato, maliziosi che non siete altro?). Prima, però, è d’uopo fare un “passo” indietro per introdurre il tema disabilità e sport. Se fino a qualche decennio fa agli esemplari di disabile l’attività agonistica era pressoché preclusa, oggi possiamo misurare le nostre capacità in differenti discipline: dal rugby allo sci, dal tennis all’atletica, passando per quelle estreme fino – tenetevi forte – al curling. E i francesini (gli indossatori della distrofia di Duchenne), che nella catena alimentare disabile coprono gli ultimi posti, possono esprimere le loro doti in ambito sportivo?

hockey

Per rispondere mi trovo costretto a fare ritorno alla mia adolescenza, perché come tutti i pre-adulti volevo anch’io cimentarmi in un’attività ludico/sportiva: la scelta era ampia, ma il mio essere schizzinoso fu un vero e proprio handicap – non come quello che porto a spasso ogni giorno -, che me ne precluse parecchie. Pensai subito a un’attività universalmente considerata da vero uomo: il balletto, ma rinunciai alla sola idea di indossare il tutù. Perché mi avrebbe fatto dei fianchi grossi così e, accipicchia, sarei stato proprio inguardabile. Dopodiché toccò all’arrampicata, ma ancor prima di cominciare capii che non faceva per me: rovinare le unghie con quei massi? Ma siete massi? Un vero peccato quando sono ben curate come le mie; così cancellai dalla lista tutti gli altri sport estremi: come potevo pensare di raccogliere l’eredità di Patrick de Gayardon, quando riuscivo a malapena a tenere in mano il telecomando?

Allora puntai agli sport di squadra: cominciai con il rugby, finché non realizzai che potevo essere passato da parte a parte al primo placcaggio. Dovevo necessariamente tener conto della mia silhouette, che al massimo mi avrebbe permesso di vincere il premio Oscar come miglior comparsa in un film sui campi di concentramento. Poi venne il turno del basket: «E se dovessi cadere dalla carrozzina?», mi chiesi e tanti saluti pallacanestro. Dulcis in fundo l’hockey: da escludere quello su ghiaccio – fa troppo freddo -, neanche su prato – «Se piove, poi è umido», avrebbe sentenziato mia madre -, bensì in palestra: ovviamente, vista la mia incrollabile fede nella filosofia del Pigronismo, seduto sulla mia “sedia elettrica”.

A soddisfare questa richiesta si presenta il weelchair hockey e la squadra territorialmente più indicata: gli Sharks Monza. L’inizio fu folgorante, perché segnai il mio primo gol all’esordio e addirittura da centrocampo. Promettevo molto bene: il futuro dell’hockey su sedia elettrica era nelle mie mani. Purtroppo poi si scoprì che promettevo molto bene, ma come marinaio. Infatti fui incostante: un po’ di luce, una galleria; un bagliore, una galleria ancor più lunga; e così via. La svolta avvenne solo quando decisi di rinunciare alla mazza (quella di hockey s’intende, maliziosi che non siete altro), per un più francesino stick (lo stick è un aggeggio a forma di T rovesciata che si applica alla carrozzina, consentendo di portare la pallina sfruttando l’inerzia della stessa). Cominciai come difensore, ottenendo qualche soddisfazione: ribaltai diverse volte lo stesso giocatore; venni più volte ammonito, ma mai espulso (che vergogna, lo so). Poi divenni portiere, il ruolo a me più congeniale sia tatticamente che filosoficamente. Tra i pali ottenni il meglio: mi laureai – fu anche l’unica mia laurea – campione d’Italia nel 2000.

Sarebbe bello raccontare che fu grazie alle mie parate, ma fui il portiere più inoperoso della storia: eravamo talmente forti che gli unici interventi che portavano la mia firma avvenivano quando la pallina rotolava dalle mie parti a gioco fermo, facendo del sottoscritto un ottimo raccattapalle; ma anche un buon statistico, poiché potevo – mentre ero disimpegnato tra i pali – contare gli spettatori, il genere e l’età degli stessi, chi conoscevo, le spettatrici carine e quelle meno. Fu così, tra un conteggio e uno sbadiglio, che vincemmo il tricolore. Ricordo ancora l’agitazione della notte precedente, tanto da non chiudere occhio, e con una domanda che mi perseguitava: e se dovessi fare una parata decisiva sul 10 a 0? Fu questo il mio più grande contributo allo sport?

Testo originale già pubblicato su ‘il Cittadino di Monza e Brianza’ nella mia rubrica

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