Da Travis Bickle ad oggi hai fatto passare talmente tanta acqua sotto i ponti che non ti si riconosce più. A vedere Nonno scatenato, Dirty Granpa pardon, non sembra neanche di assistere ad un film con te. In fondo io, anzi noi, gli spettatori tutti, quelli che con quel pizzico di curiosità, che poi si chiama stima e buona educazione nei tuoi confronti Bob, hanno buttato via un po’ del loro tempo per vederti a petto nudo fare scoregge, meritano rispetto. L’impressione che la recitazione, le performance, le scelte (?) di script siano pura questione alimentare porta parecchio indietro nel tempo. Almeno al 1997
“Ma dici a me?”. Sì dico proprio a te Bob. E non mi guardare con quella faccia da assassino. Sei tu che da Travis Bickle ad oggi hai fatto passare talmente tanta acqua sotto i ponti che non ti si riconosce più. A vedere Nonno scatenato, Dirty Granpa pardon, non sembra neanche di assistere ad un film con Robert De Niro. Nel senso che si sa in partenza di non poter vedere chissà quale metodo Stanislavskij all’opera, perché non ci si può immedesimare tra interprete e personaggio facendo leva sull’emozione passata, fondata sull’associazione tra emozione recitata e ricordo dell’emozione vissuta, quando si ha a che fare con un personaggio ottuso e superficiale come il colonnello Dick Kelly.
L’obiettivo è quello di amplificare l’effetto del turpiloquio dei bambini a messa coi genitori. Cacca, pipì, culo, tette, ripetuto ossessivamente per vedere l’effetto che fa in Chiesa. Sarà che sono cambiate le ossessioni e dal zozzo e folle Travis traslare alla demenza di Dick è come chiedere a Dino Campana di diventare Leone di Lernia. Ma in fondo io, anzi noi, gli spettatori tutti, quelli che con quel pizzico di curiosità, che poi si chiama stima e buona educazione nei tuoi confronti Bob, hanno buttato via un po’ del loro tempo per vederti a petto nudo fare scoregge, meritano rispetto e qualcosina di più di una prestazione d’opera che ha per obiettivo l’accredito sul conto corrente per acquistare i nuovi faretti del red carpet del Tribeca.
L’impressione che la recitazione, le performance, le scelte (?) di script da parte di De Niro siano pura questione alimentare porta parecchio indietro nel tempo. Almeno al 1997. La linea Maginot del “grande” De Niro, quello che a 54 anni già fa intuire che non è più tempo di Lee Strasberg, o di quei 25 personaggi ispirati a opere letterarie con costume e profilo diversi presentati alle audizioni degli esordi, sciorina gli “ultimi fuochi” della carriera: Cop Land, Sesso e potere, Jackie Brown. Tre interpretazioni paradossalmente sottotono, ma straordinariamente modulate su registri differenti. Il trasformismo deniriano è qui all’apice. Fateci caso. De Niro ama rimescolare continuamente le carte. Quella vena di dolente pazzia che caratterizza il protagonista di Taxi Driver, il soldato de Il Cacciatore, o il Jack La Motta di Toro Scatenato, è sempre in continuo slittamento verso una maschera differente. De Niro per almeno vent’anni, dal finire dei sessanta a fine novanta, non è mai identico al carattere offerto in precedenza. Non è questione di punti di vista, ma dato oggettivo. Nel trittico del 1983 Re per una notte-C’era una volta in America-Innamorarsi, offre ancora tre ruoli, tre facce, tre parlate, tre indimenticabili icone di un cinema che spazia dal dramma romantico alla solita magnifica follia scorseniana. Il Robert Pupkin di King of a comedy è un vero prevaricatore, un uomo che sacrifica la sua libertà temporaneamente per ottenerne una ancora più grande successivamente: la fama. Dire che con Scorsese, De Niro dà il meglio è scoprire l’acqua calda. Un istante però. Perché a leggere il regista newyorchese in Conversazioni su di me (Richard Schickel, Bompiani) c’è da lustrarsi gli occhi. “La famosa scena allo specchio, in cui De Niro si esercita con la pistola…”, chiede l’autore; e Scorsese: “Fu improvvisata”; “Quanto?”; “Totalmente”. E chi la improvvisò? Chiediamo noi. Risposta pleonastica.
Saltiamo a Cape Fear, anche se in mezzo c’è Quei bravi ragazzi. Bob è Max Cady, un ex galeotto che fa paura sul serio. C’è chi lo ricorda ustionato riemergere dalle acque mentre parla in aramaico, c’è chi lo ricorda mentre mena come una belva gli scagnozzi dell’avvocato Nick Nolte, ma c’è chi ha in mente il vero momento di svolta, quello che scuote l’equilibrio familiare dei protagonisti del film, quando Max infila il ditino in bocca a Danielle e l’ultimo baluardo di fiducia paterno va a farsi benedire. Agli atti pagina 248 del libro di Schickel. “Prima di girare De Niro ebbe l’idea di mettere il pollice nella bocca della ragazza”, spiega Scorsese.
Ecco, De Niro era questo. Qualcosa di travolgente, oltre il muro del suono. Un corpo che sconvolgeva, piegava, contorceva certezze. Insuperabile. Eppure accade quel qualcosa che non avresti mai voluto vedere. Succede che De Niro accetta di rifare se stesso. Ripetere uno stereotipo semplificato all’osso di un suo personaggio all’infinito in thriller che lo vogliono cattivone ma senza gusto o sadico piacere: Flawless, The score, o una roba inguardabile come Godsend. E se la deriva non bastasse in pochi anni si getta a capofitto nella parodia dell’uomo tutto ordine e distintivo, come se lui avesse mai rappresentato una figura del genere con successo. Il filone demenziale di Ti presento i miei, in auge dal 2000 al 2010 distrugge ogni velleità di preziosi camei o comparsate, di incursioni particolari e definitivi, con le tempie imbiancate e la saggezza di chi aveva saputo raccontare l’America. Per non parlare della parodia dei mafia movie, un ellissi che lo vede indecente protagonista di Terapie e pallottole come del recente Cose Nostre. La trilogia comica con David O. Russell (American Hustle, Il lato positivo, Joy) non lo salva per nulla da sciocchezze con mondo paranormale – Red Lights – o da quella indecorosa farsa pugilistica che è Il Grande Match. De Niro svende la sua innata capacità trasformista (ma ve lo ricordate quando fa Al Capone ne Gli intoccabili e con una mazza da baseball ammazza un commensale?) per piattini di lenticchie, oltretutto parecchio scotti. Allora meglio tornare alla prima persona, perché è ora di farsi dare una risposta diretta.
Si, ho detto a te Bob. Faccio un ultimo esempio. Al Pacino, quello che sta a tavola con te in Heat – La sfida, in quel campo e controcampo che doveva finire in una spirale vertiginosa ma ad un certo punto la maggiore attesa è su chi prenderà lo scontrino per dire “Lascia, faccio io”. Ecco proprio Al, che le vaccate in tarda età ha cercato sistematicamente di evitarle, ha un ruolino di marcia da ultrasessantenne che tu sogni ad occhi aperti (S1mone, People I know, The son of no one dove subentra proprio a te Bob, per dirne alcuni). Il tuo appassire, il tuo cupio dissolvi, caro Bob, crea rabbioso dispiacere, mai vera tenerezza che si dimostra alla tarda età. Davvero, dopo Nonno scatenato che ci dobbiamo aspettare? Farai mica un altro film? Chi crederà allora che davanti agli occhi ha quel tizio, lo stesso che interpretava Travis Bickle?