Quel che segue è il racconto di un breve viaggio italiano alla ricerca di un “cambiamento”, che come l’Araba Fenice che vi sia, ciascun lo dice; dove sia nessun lo sa. Mi spiego: come certi motivetti ossessivi, la frase chiave del renzismo imperante: “Stiamo cambiando l’Italia”, da tempo mi frulla nella testa costringendomi a un esame di coscienza giornalistica. E se fosse vero? E se avessero ragione Renzi, la Boschi, la Serracchiani eccetera, che mentre a noi gufi dattilografi non va bene nulla, questo governo sta approvando a velocità supersonica decine di riforme fondamentali che stanno rivoltando il Paese come un pedalino? Dunque, mi metto all’opera e sul taccuino fisso la regola fondamentale del buon giornalismo anglosassone: osservare, ascoltare, raccontare ed evitare qualsiasi pregiudizio politico. Bene, si parte e sul taxi che mi conduce alla Stazione Termini mi guardo intorno per cercare di cogliere, con occhi nuovi e finalmente scevri da faziosità, quel cambiamento che sicuramente sta avvenendo, mentre come nell’alba di un nuovo giorno la luce è sospesa e la creazione trattiene il suo respiro. Siamo partiti con largo anticipo ma, purtroppo, rischio di perdere il treno, causa un colossale ingorgo che intasa le vie d’accesso alla destinazione. Chiedo informazioni al conducente che risponde: “I soliti cantieri dotto’, sfondano l’asfarto, lo transennano, se ne vanno e non si passa più”.

Taccio, ma con innocenza bambina evito qualsiasi deriva qualunquistica e scrivo: a parte che con il traffico romano il governo Renzi non c’entra niente, ma se sotto l’esperta guida del prefetto Tronca si sta lavorando per modernizzare la Capitale, ben vengano questi, tutto sommato, sopportabili disagi. Il treno che mi porterà a Pisa è l’Intercity 518 delle 15:57: prendo posto in prima classe, in una vettura d’epoca a giudicare dalla vetustà degli scompartimenti e dal velluto consunto dei sedili, lardellato di macchie inquietanti. Del resto, per la modica cifra di 37 euro, cosa pretendo da Trenitalia, il Frecciarossa? Recandomi alla toilette, scopro che il water alla turca scarica direttamente sulla massicciata, come nelle tradotte del dopoguerra. Davvero pittoresco.

Del resto, si sa, la modernizzazione della rete ferroviaria è continuamente frenata dalle ubbie ambientaliste. Vogliamo parlare del Tav, Torino-Lione, che nell’eterna lotta del nuovo contro l’antico, della velocità contro la stasi, dell’audacia contro la viltà, mirabilmente compendia l’etica del cambiamento e dell’innovazione? È vero, qui viaggiamo sulla derelitta linea tirrenica, ma diamo tempo al tempo. Si chiacchiera con il mio compagno di viaggio, un gentile avvocato che si occupa di diritto del lavoro. Mi spiega che per effetto indotto del Jobs Act, si moltiplicano i licenziamenti per ingiusta causa, che i datori di lavoro utilizzano per liberarsi dei dipendenti in esubero o poco simpatici. Ma se sono ingiusti, insorgo, ci sarà pure un giudice a Berlino? A Berlino non so, replica l’uomo di legge, mentre so che a Livorno e nella Toscana tutta i licenziandi preferiscono concordare anche una modesta buonuscita piuttosto che affrontare giudizi lunghi, costosi e dall’esito incerto. Improvvisamente, in quel vagone sferragliante, lo spirito del cambiamento mi si manifesta vivido ed eccitante e mi sento come Hegel che vede Napoleone trionfante a Jena e dice di avere incontrato lo spirito del mondo. Ecco la riforma del lavoro che fa sentire i suoi benefici effetti, incrementando nuova occupazione e stimolando corposi investimenti. Non è così, sottilizza il leguleio, gli effetti del jobs sull’occupazione già evaporano.

Un altro gufo, mi riservo di controllare. E se anche qualcuno venisse licenziato, pazienza. Del resto, quando si pialla cadono trucioli, diceva quel tale. A Pisa, vengo accolto dagli amici del Cineclub Arsenale ai quali chiedo in che misura il cambiamento stia già facendo sentire i suoi benefici effetti sulla realtà cittadina. Mi guardano un po’ stralunati. Ma come, insisto piccato, il governo ci dice che il Paese ha ricominciato a crescere, che siamo ufficialmente fuori dalla crisi e voi non avete nulla di positivo da segnalare? In effetti, camminando per le vie storiche non si notano i segni della mutazione ma siamo nell’ora dell’aperitivo in una città universitaria popolata da studenti e si capisce che non è il luogo e neppure il momento più adatto per intercettare le scintille della trasformazione.

La sala Arsenale ricavata da vestigia medievali è splendida, la cura e la passione di un gruppo di cinefili hanno fatto il resto. Purtroppo, mi spiegano, le prospettive del cinema d’essai sono sempre più accidentate: contributi pubblici al minimo senza contare lo strapotere di distributori ed esercenti che ormai agli indipendenti non lasciano neppure le briciole. Si presenta Il Grande Lebowski, platea molto giovane accorsa per fare conoscenza con Drugo e i suoi amici sfigati degli anni 90, quando il mondo era come doveva essere e andava bene così.

Ho scherzato, naturalmente. All’inizio della mia passeggiata, lo sapevo che nessuno stava realmente cambiando l’Italia, e fortunatamente aggiungo. Perché oggi, soprattutto, c’è un’Italia che vale la pena conservare: quella che difende, spesso disperatamente, la propria eccellenza dall’incuria ma soprattutto dall’arrembaggio di governanti avidi e incolti. Nel viaggio di ritorno incontro il professor Salvatore Settis che si reca a visitare le meraviglie di William Kentridge sul Tevere, il monumentale fregio di 550 metri sui muraglioni tra Ponte Sisto e Ponte Mazzini. Il Triumphs and Laments che da Romolo e Remo, a Mastroianni, Pasolini, Moro racconta fasti e nefasti. E che un giorno forse accoglierà Francesco Totti, ma Renzi ne dubitiamo. Stazione Termini: file infinite al parcheggio dei taxi, c’è lo sciopero di bus e metro. È tutto fermo, bloccato e non si sentono quasi rumori. Come la Capitale, anche la nazione subisce in silenzio il fine pena mai del pubblico degrado e della propaganda di fuffa.

da il Fatto Quotidiano del 24 aprile 2016

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