Basta col classicismo viva l’arte contemporanea, ma quale? Quella senza o con lo slash come quella sorta di concrezione denominata Pluto and Proserpina inserita a piazza della Signoria da Jeff Koons – poi fortunatamente rimossa grazie al sindaco Dario Nardella – alla quale è appena subentrata una gigantesca & traslucida tartaruga di Jan Fabre, artista belga di ben altro spessore, sul quale suggeriamo di visionare Beyond the artist di Giulio Boato presentato all’ultimo Lo Schermo dell’Arte Film Festival di Fi/renzi, Italy.
Ma stiamo ben attenti a non confondere le due operazioni. Jeff Koons in Florence evento promosso dal Comune di Firenze in collaborazione con la Biennale Internazionale dell’Antiquariato, sponsorizzato da Fabrizio Moretti e dalla locale Camera di Commercio con la Moretti Fine Art e David Zwirner, organizzato dalla Mus.e- Associazione dei musei civici fi/renzini, mentre i tre interventi di Jan Fabre promossi dal Comune di Firenze e organizzati sempre da Mus.e, sono stati sponsorizzati da Leo France, Toscana Aeroporti, Mag Jit, Residence d’Epoca in piazza della Signoria, Arteria con il sostegno della Guy Pieters Gallery e della galleria Il Ponte.
Ma il punto in questione, per gli animalisti uno scandalo addirittura, non riguarda soltanto gli attuali interventi di Fabre a piazza della Signoria e a Palazzo Vecchio, e gli altri suoi prossimi venturi al Forte Belvedere, sta nel demerito di chi ha bellamente preteso di inserire in una delle piazze d’arte più visitate del mondo, opere d’arte contemporanea & con/temporanea che con il Rinascimento – “Firenze inventò il mondo moderno”, vergò Mary McCarthy nel suo Le Pietre di Firenze – c’entra come i cavoli a merenda. Come se Il Giardin di Boboli venisse utilizzato per una mostra della Ferrari sponsorizzata dalla Fiat, le quali con il celebrato giardino fiorentino, non c’entrano un fico secco.
L’iperreale tartaruga di Fabre, denominata Searching for Utopia, assieme alla più discutibile The man who searching the clouds, anch’essa esposta nella stessa piazza e altre non ancora viste all’interno di Palazzo Vecchio, pare siano costate poco e forse nulla all’amministrazione comunale di Fi/renzi, essendo tutte le spese sostenute dagli sponsor che ricaveranno i loro benefit se non altro d’immagine, da un’operazione che, al di là dell’indubbia caratura di Fabre, sovrappone la propria immagine promozionale e dunque di mercato, alle opere d’arte di una piazza simbolo del Rinascimento del mondo.
Ciò premesso, per non cadere nei limiti di una critica fine a se stessa, voglio citare l’Operazione Arcevia (1976/2016) riesumata giusto l’altro ieri all’Università di Siena, grazie alla storica dell’arte Claudia Gennari e ai docenti Massimo Bignardi ed Enrico Crispolti, un critico quest’ultimo che, assieme al collega Pierre Restany e allo psicologo Antonio Miotto, fece parte della commissione tecnica dell’omonimo progetto per una comunità esistenziale, ideato dall’architetto Ico Parisi e sponsorizzato da Italo Bartoletti, con la partecipazione di una trentina tra scrittori, musicisti, critici e artisti come Michelangelo Antonioni, Alberto Burri, Cesar, Tonino Guerra, J.R. Soto, Shu Takahashi i quali, assieme agli altri “operatori estetici”, ma anche a sociologi, pianificatori del territorio, esperti di artigianato, agrimensori, politici e via discorrendo, seppero programmare e prevedere nei minimi dettagli l’impatto dell’operazione in un contesto di degrado socio economico e culturale in una zona in progressivo spopolamento.
Ico Parisi pervenne all’Operazione Arcevia rifiutando un progetto per un villaggio residenziale in favore di una comunità esistenziale di artigiani, agricoltori e artisti estesa su 150 ettari coltivati e boschivi, nel territorio di Palazzo d’Arcevia, una tipica zona pre appenninica marchigiana a 500 metri sul livello del mare, a una cinquantina di chilometri da Ancona. Operazione preceduta da un progetto la cui stesura richiese uno studio triennale, dal 1972 al 1975, prima di dare il via a un’operazione che Bruno Zevi non esitò a definire Genio City, ma che presentata alla Biennale di Venezia del 1976, rimase lettera morta come spesso accade in questo paese. Oggi l’Operazione, riesumata su basi diverse, procede con altre modalità. Avendo partecipato a questa operazione in qualità di operatore estetico, grazie alla mia multivision “La società dello Spettacolo” (Rotonda della Besana, Milano, Camel Award 1975), con cinque interventi di altrettanti affreschi tecnotronici (leggi virtuali), posso testimoniare che alla tutt’altro che estemporanea Operazione Arcevia, partecipammo tenendo conto dell’ordito culturale, urbanistico e soprattutto sociale, nell’intento che ogni singola proposta non cadesse dall’alto, visto & considerato che il suo ideatore intendeva fornire “una soluzione che si avvicina… alla realtà di un mondo povero, di propositi modesti… più futuribile di quanto lo siano massastrutture per milioni di persone… città spaziali o subacquee utopie previste… che hanno poche possibilità di funzionare per il dissipamento delle risorse energetiche che comportano, ma soprattutto perché lontane dalle modeste e umili esigenze della gente” comune, e non a un ristretto numero di fruitori e addetti ai lavori.