L'ottantatreenne fratello dell'Ingegnere in "Scegliere i vincitori, salvare i perdenti" attacca "l'insana idea della politica industriale". E racconta una classe dirigente senza capitali preoccupata solo dal mantenimento del potere
Franco Debenedetti è nato nel 1933, come l’Iri. Dopo 83 anni poliedrici – figlio di un industriale, ingegnere nucleare, manager nelle aziende di famiglia e non solo, senatore dell’Ulivo – scrive un’appassionata invettiva contro il gemello putativo, l’Iri appunto, che incarna “l’insana idea della politica industriale”. Per Debenedetti l’intervento pubblico in economia è il male assoluto. In Scegliere i vincitori, salvare i perdenti (Marsilio) lo ritrae impietosamente con ricostruzioni storiche, raffinate citazioni, sapidi aneddoti. È una contraddizione a rendere avvincente il libro: l’autore si dichiara razionale e anti-ideologico ma (idealisticamente) pensa che motore della rivoluzione industriale sia stato il pensiero liberale e (ideologicamente) non si dà pace di come sia andata la storia d’Italia, e la processa.
Benito Mussolini, spalleggiato dal socialista Alberto Beneduce, pensa che gli industriali italiani non siano all’altezza e affida lo sviluppo allo Stato. Nel Dopoguerra la Dc di Amintore Fanfani sovrappone al liberismo di Luigi Sturzo e Alcide De Gasperi la decisione di perpetuare lo statalismo fascista. Nasce l’Eni, cresce l’Iri. Il boom economico è figlio della siderurgia a ciclo integrale che a spese del contribuente regala acciaio all’industria privata. Ma la crisi dell’economia pubblica trascinerà nella polvere la nazione, come volevasi dimostrare.
Sembra che per l’autore la Storia abbia sbagliato. Cita Sturzo, fondatore della Dc, che nel ’55 inorridisce di fronte ai giovani statalisti fanfaniani, precursori dell’Ulivo di Nino Andreatta e Romano Prodi: “L’apertura a sinistra parte dalla convinzione che solo a sinistra si trovi la soluzione dei mali sociali. L’errore è la cieca fede nello statalismo economico e l’ostilità crescente verso l’iniziativa privata”. Per dare conto degli imprenditori “scoraggiati” dallo statalismo Debenedetti non si allontana dal terreno che preferisce, il dubbio, e si tiene alla larga dalla storia controfattuale. Con coraggio – coinvolgendo anche il fratello dal cognome modificato che ha sempre affiancato – fotografa una classe imprenditoriale senza capitali preoccupata solo dal mantenimento del potere: “Il capitalismo relazionale resta l’asse portante del nostro sistema industriale”. La causa è “la mancanza, nel nostro capitalismo e nei nostri mercati mobiliari e finanziari, di istituzioni moderne, alla pari di quelle dei mercati più sviluppati”. Insomma, pare che la colpa sia della società.
Sulla nascita dell’Iri, cioè dell’industria di Stato, Debenedetti ricorda che Mussolini chiese a Beneduce: “Quando lo chiuderemo questo convalescenziario?”. Ma trascura lo snodo decisivo, che conosciamo grazie al genero di Beneduce, Enrico Cuccia. Mussolini tenta di vendere agli Agnelli, ai Pirelli e altri “pescecani” la Sip, cioè i telefoni di Stato. Beneduce spiega al trisnonno di John Elkann che quella è l’industria del futuro e quello gli chiede una dote di 700 milioni di lire pubbliche, qualcosa come 3-5 miliardi di euro attuali. Mussolini sbotta: “Sono solo dei coglioni. Beneduce! Non gli dia un cazzo e li mandi a quel paese”.
Nelle oltre 300 pagine di un volume mai ipocrita stranamente non viene nominato Antonio Di Pietro, come se Mani Pulite non fosse una pietra miliare nella storia del capitalismo italiano. L’autore racconta come egli stesso, alla guida della Olivetti Information Services, buttò 600 miliardi di lire dello Stato per il nuovo stabilimento barese di Bitritto, pur denunciando che fosse uno spreco: “Niente da fare: volevano qualcosa che si vedesse, volevano un edificio dentro il quale mettere persone e computer […] glielo facemmo l’edificio, farne di belli non è mai stato un problema per l’Olivetti”. Poi spiega che quel tipo di scelta “ci è costata trent’anni di ritardo”.
Per Debenedetti esiste uno stato di natura dell’uomo che è nato per imprendere e competere ma viene soffocato dallo statalismo che danneggia la “formazione psicologica di un popolo”, dice Sturzo all’unisono con l’icona liberista Friedrich von Hayek. Ma è una costruzione, questa sì, tutta ideologica. Lo statalismo è arma della sinistra contro la diseguaglianza solo nei Paesi più avanzati, in Italia è fin dall’Ottocento la risposta della destra ai ritardi nell’industrializzazione.
Scritto da un signore abbastanza anziano e di successo da non dover compiacere nessuno, il libro si fa leggere con gusto anche da chi diffida dei liberisti à la carte. Peccato che non faccia i conti con altri filoni di pensiero, come quello che risale a Karl Polanyi (La grande trasformazione, 1944) e all’antropologia. Rimane fedele invece ai miti rudimentali dell’homo oeconomicus, figura mitologica della quale da oltre un secolo storici ed etnografi cercano senza successo tracce empiriche: le donne e gli uomini di ogni cultura e latitudine sono da sempre in cerca di felicità e benessere, ma non ossessionate dall’accumulazione di denaro; una piccola minoranza è avida al punto da sconfinare nella disonestà.
L’uomo proteso all’iniziativa economica ma rispettoso delle regole chiamate mercato, che produce prosperità per tutti, l’imprenditore “agli altri ed a se stesso amico” non esiste in natura. E Debenedetti, che osserva con attenzione l’agire di colleghi e parenti, lo sa.
da Il Fatto Quotidiano del 20 aprile 2016