Taccuino di un vecchio sporcaccione. Nessuno se ne abbia a male, soprattutto Claudio Lolli. La citazione, si sa, è da Charles Bukowski. E Lettere matrimoniali, il primo romanzo del cantautore bolognese che torna dopo tre anni nelle librerie grazie a Laurana Editore, ne sembra riprendere la dolente reiterazione sessual-maniacale in ogni voltar di pagina. Con una variante: l’ossessività dello stesso soggetto. Il romanzo di Lolli è, infatti, una raccolta di lettere indirizzate alla moglie, lasciate “la prima a mano, le altre in una scatola da scarpe”, dopo la morte della vecchia madre: ogni giorno, in modo che la moglie le legga a distanza di qualche ora dopo che lui le ha scritte.
Tra spunti biografici e invenzioni tout court il 65enne Lolli accompagna il lettore in un carsico riemergere di ricordi personali che intersecano brandelli di presente e nostalgie di passato. Tutte con un venerato obiettivo, sensibile e preciso: ruolo, mente, anima, corpo, seni e vagina, della donna conquistata negli anni settanta e diventata angelo del focolare, quasi fosse giorno per giorno paradossalmente irraggiungibile. “Lo sai che se non sono un po’ volgare non sono io”.
Lolli è osceno quanto basta, balletto bukowskiano di erezioni perenni e penetrazioni possibili, attorno all’origine courbettiana del mondo in Birkenstock tra i fornelli, con le borse della spesa al Conad, o tutta sudata in un’estate rovente bolognese. Bisogna entrarci dentro, pagina dopo pagina, a questo Lettere Matrimoniali, evitando quell’attesa spasmodica del passaggio/battuta antisistema regalato ad universitari fuoricorso antiberlusconiani, fino ad arrivare al nocciolo di un racconto di vita/morte dolorosissimo e straziante, sublime addirittura dopo un centinaio di pagine. Lolli scrive le citate lettere ogni giorno, le chiude con porcherie assortite e le firma “Con amore”.
Poi lentamente è come se entrasse in scena quel tumulto interiore covato nel tempo, un’ansia di disordine (“vita senza regole rigide e imposte, senza norme da rispettare (…) vai dove ti porta quello che hai dentro di te che a volte è oscuro e complesso”) compressa nella quotidianità dei film di Sky e della casetta in montagna. Per questo si annodano i fili di un sentire intimo e tragico, sempre collocato in quello spazio ambivalente d’origine del mondo che serve anche ad esorcizzare la fine: “Si esce da una meravigliosa fessura femminile a guardare il sole e si finisce in una fessura della terra a guardare il buio”.
Rimpianti forse, rimorsi nessuno. “Poi essere giovane oggi sarebbe terribile. No future, dicevano i Sex Pistols, no future per nessuno. Io almeno posso guardare a un passato quasi concluso e che si concluderà con una sua armonia e tante soddisfazioni. Tu ed io (rivolto alla moglie ndr) abbiamo vissuto per tutti, non solo per noi stessi, ci siamo dati, ci siamo spesi per un progetto di un paese semplice e giusto. Non ce l’abbiamo fatta e lasciamo ai nostri figli una frittata impazzita”. Ma non è questa lettura del confronto generazionale, vinta a mani bassi peraltro da Lolli e compagni, ad essere fulcro del pensiero, nucleo dell’agire, spinta dell’essere. Il Lolli di Lettere matrimoniali, è l’uomo comune del bianchetto e del Campari in enoteca, come del quadrato di pizza da Altero che fonde la sua eccezionalità d’artista con la polvere del ricordo e della strada, il dolore dell’esistenza che va a concludersi con la vitalità del combattente che usa versi e pensiero. Qualcosa di rude, burbero, immanente e sfuggente allo stesso tempo che potrebbe finire con questa frase “Il seme che dice ‘io ti faccio nascere’ e il vento della morte che replica ‘e io ti distruggo di nuovo’ ”, o ancor di più con questa rivolta alla moglie: “Io solo due cose avevo da darti: l’amore e il cazzo e quelli credo di averteli dati tutti fino in fondo quando li hai accettati”.