Il primo compito di un pensiero critico dovrebbe consistere nella restituzione alla libera discussione razionale di ciò che abitualmente le è sottratto per le ragioni più disparate: le quali spaziano dal dogmatismo alla pressione del pensiero unico politicamente corretto. Come disse Hegel, la filosofia ha anche il dovere di rendere conosciuto ciò che è soltanto noto. Ed ecco allora che possiamo provare, sia pure per cenni e impressionisticamente, a operare in questa direzione con il 25 aprile.
Si tratta di una data che viene assunta indiscutibilmente come dì di festa, da magnificare senza se e senza ma. Eppure credo occorra riflettere seriamente, senza pregiudizi e ideologie, su tale data. A una più attenta analisi, non viziata dal dogmatismo cerimoniale, il 25 aprile dovrebbe essere un giorno di festa e, insieme, di lutto: di festa, giacché coincide con la benemerita sconfitta del nazifascismo in Italia, con tutti gli orrori a cui esso si era accompagnato; di lutto, in quanto alla liberazione seguì senza soluzione di continuità una nuova occupazione. La sacrosanta fine del nazifascismo non coincise, come sempre si dice, con ‘la’ liberazione, bensì con il transito da un’occupazione a un’altra: si passò dall’infame occupazione nazifascista all’altrettanto infame occupazione americana del territorio italiano, ridotto a colonia atlantista senza sovranità e con occupazione permanente del suolo nazionale con basi militari statunitensi. Non fine dell’occupazione, ripeto, ma passaggio da un’occupazione a un’altra: o, se preferite, liberazione e immediatamente nuova occupazione. Festa e subito dopo nuovo lutto.
Dal 1945 ad oggi il territorio italiano è colonia americana: occorre chiamare le cose col loro nome, se si vuole – diceva Gramsci – essere rivoluzionari e non meri ‘funzionari delle superstrutture’. Anche oggi, dopo il 1989, finito ingloriosamente il comunismo storico novecentesco, il nostro territorio continua a essere occupato da più di 110 basi militari americane. Se Washington decide di attaccare Baghdad o Belgrado, Roma deve cadavericamente fare altrettanto. Ecco una delle conseguenze della nuova occupazione.
Non può esservi democrazia ove il territorio nazionale è occupato da basi militari straniere e la decisione sovrana del popolo è vanificata aprioricamente: un ateniese del tempo di Pericle si sarebbe messo a ridere se gli si fosse detto che viveva in democrazia con, supponiamo, l’Acropoli occupato da una guarnigione spartana. A noi dal 1945 non viene da ridere: accettiamo un’analoga situazione, come se fosse ovvia e naturale. E chi osa porre il problema è silenziato come ‘estremista’, ‘antiamericanista’, ‘comunista’, ecc. È anche per questo che il 25 aprile è un giorno di festa e insieme di lutto.
Se dovessi spiegarlo a un bambino, impiegherei questa narrativa, semplificante ma, credo, efficace: vi era una casa bella e serena, fintantoché una banda di mascalzoni non la occupò ‘a colpi di revolverate’ (parole di Gramsci). Arrivarono poi dei liberatori che parlavano inglese: i quali cacciarono i mascalzoni. Gli abitanti della casa festeggiarono. E però i liberatori pensarono bene di non andarsene, una volta liberata la casa: si insediarono loro stessi come nuovi occupanti, costringendo i legittimi abitanti a vivere nel sottoscala e amministrando loro la casa. Da liberatori divennero nuovi occupanti: la festa fu breve, perché la liberazione si capovolse subito nel suo contrario.