Bloomberg, riclassificando dati Eurostat, ha calcolato che la Penisola è il Paese dell'Eurozona che negli ultimi tre anni ha subito le maggiori perdite a causa degli strumenti sottoscritti per assicurarsi contro eventuali aumenti dei tassi (ora ai minimi). Dal Def emerge che la vendita di quote di Ferrovie e la quotazione dell’Enav basteranno appena per compensare questo effetto negativo
I derivati sul debito pubblico sono stati un cattivo affare: l’analisi di Bloomberg sugli ultimi dati Eurostat dimostra che negli ultimi tre anni “i derivati hanno appesantito ulteriormente il debito pubblico italiano, rendendo l’Italia il Paese che ha subito le maggiori perdite da swap nella zona euro”, come scrivono Lorenzo Totaro e Giovanni Salzano per Bloomberg News. L’impatto dei derivati sul debito nel 2015 è stato un aumento del debito di 6,8 miliardi mentre altri Paesi, come l’Olanda, con i derivati ci hanno guadagnato. I tecnici della materia osservano che il confronto andrebbe fatto in percentuale (l’Italia ha uno dei debiti pubblici più alti del mondo) e che se uno Stato guadagna dai derivati quando i tassi scendono significa che ha fatto contratti speculativi e non per assicurarsi contro un aumento improvviso del costo del debito. Ma il salasso per l’Italia è comunque notevole.
La linea del Tesoro è nota: l’Italia è un Paese con più di 2.100 miliardi di debito che sono complessi da gestire, senza i derivati che hanno stabilizzato i flussi rendendoli prevedibili (trasformando prestiti a tasso variabile in tassi fissi) o spalmato i costi degli interessi su tempi più lunghi, la situazione sarebbe stata ben peggiore e, quasi certamente, fuori controllo negli anni dell’emergenza spread, tra 2011 e 2012.
Magari è vero, ma è difficile dimostrarlo, perché non abbiamo gli elementi per sapere cosa sarebbe successo se i derivati non fossero stati stipulati. Rimanendo alle certezze, possiamo leggere i numeri pubblicati dall’Ufficio parlamentare di bilancio, l’autorità indipendente sulla finanza pubblica. Nel “Rapporto sulla programmazione di bilancio 2016” si legge che gli effetti sul debito italiano dei contratti derivati sono stati negativi in ognuno degli ultimi cinque anni analizzati: per 2,4 miliardi nel 2011, 5,6 nel 2012, 3,5 nel 2013, 5,4 nel 2014 e addirittura 6,7 miliardi nel 2015. La scadenza media del debito – più è lunga, meno si è esposti alle variazioni dei tassi nel breve periodo – è aumentata ma di poco: sei mesi nel 2014.
Incrociando due tabelle dell’Upb si arriva a una conclusione inquietante: dai numeri del Tesoro sembra che il governo usi le privatizzazioni (quelle in arrivo sono vendite di quote di Ferrovie, la quotazione dell’Enav, forse altre quote di Poste o di Eni) per coprire i buchi lasciati dai derivati. La prima è la tabella che stima l’effetto delle privatizzazioni sull’indebitamento: gli “introiti da privatizzazioni” dovrebbero far migliorare il rapporto tra debito e Pil dello 0,5 per cento ogni anno tra 2016 e 2018 e 0,3 nel 2019. Nulla di ufficiale è scritto, nel Documento di economia e finanza del governo (Def), su come verrà ottenuto il risultato.
Poi c’è la tabella “aggiustamento stock-flussi” che indica l’impatto di tutte quelle voci che hanno impatto sul debito ma non sul saldo, cioè che in base ai principi contabili finiscono solo nel rapporto tra debito e Pil e non in quello tra deficit annuale e Pil. Questa voce comprende sia l’effetto delle privatizzazioni sia quello dei derivati. E si nota che l’impatto dell’aggiustamento “stock-flussi” sul debito è minimo: un aumento del debito dello 0,2 nel 2016, un piccolo calo dello 0,1 nel 2017, 0 nel 2018 e di nuovo -0,1 nel 2019. L’aritmetica induce a sospettare che il calo del debito dovuto alle privatizzazioni venga più che compensato da un aumento del debito dovuto all’effetto negativo dei derivati. Un altro indizio: nel 2015 i derivati ci sono costati 6,7 miliardi mentre nello stesso anno il governo otteneva esattamente 6,6 miliardi dalle privatizzazioni.
La trasparenza sui derivati, in questi anni, è molto aumentata. Anche per l’inchiesta avviata dalla commissione Finanze della Camera quando era presieduta da Daniele Capezzone (Conservatori e riformisti). Poi Capezzone è stato sostituito alla presidenza e l’inchiesta è sparita, senza neppure una relazione finale. Secondo l’Ufficio parlamentare di bilancio, “l’ampliamento del quadro informativo, pur rappresentando un significativo progresso, non appare sufficiente a chiarire in che misura e con quale profilo temporale la passività potenziale rappresentata dal mark to market negativo dei derivati potrà incidere sul fabbisogno e sul debito negli anni futuri”. Delle perdite teoriche di 42 miliardi (dato a fine 2014) quante saranno effettive? Non si sa.
Anche grazie al cambio delle regole europee del 2014, i derivati non si possono più usare per spostare verso il futuro il peso del debito pubblico. Il Tesoro può comunque rinegoziare i contratti in essere, soprattutto le swaption, cioè la facoltà che hanno alcune banche di attivare degli swap (scambi di flussi finanziari) quando le condizioni di mercato lo rendono conveniente per loro, e quindi penalizzante per il Tesoro. Il ministero sta cercando di rinviare queste swaption, in modo da evitare che le banche presentino il conto ora. Ma si rifiuta di dire quanti sono questi contratti e quale danno possono creare.
Da Il Fatto Quotidiano del 24 aprile 2016