Vorrebbe Mary Poppins come ministro della pubblica istruzione ed è convinto che “il popolo italiano non sa, non vede, ma immagina. E l’immaginazione, se resta tale, non è reato”. Così vaneggia Giacomo Pavrini, primo ministro del Belpaese in Sweet Democracy, satira politica formato film ideato, prodotto, scritto, diretto e interpretato da Michele Diomà, con la partecipazione “sacra e speciale” di Dario Fo.
Il premio Nobel compare infatti nella pellicola attraverso monologhi (girati a casa sua, probabilmente) in cui sentenzia su temi fondativi e fondamentali della democrazia, così come sono applicati nel Belpaese. Ubi maior, Fo si esprime sulla rivoluzione, sulla guerra, sul mercato d’armi, su Papa Francesco, e non per ultimo sul senso del potere, sulla libertà espressiva, sul caso Moro. Da parte sua, il regista, 33enne napoletano e cinefilo integrale, non poteva mettere a segno un colpo migliore e il grande artista milanese è stato assai generoso nei suoi riguardi a corollario di un progetto nato con l’intento di denunciare la scomparsa della satira politica dal cinema italiano contemporaneo.
Non avendo tutti i torti, la “riesumazione” satirica di Diomà si struttura in un film “fuori genere” ad oggi inedito, ma che non tarderà a trovare un suo canale distributivo. Ad assumersi il ruolo di un giovane presidente del consiglio sbruffone, saccente e mediaticamente smart è proprio Diomà: tutto porterebbe ad identificarlo con Matteo Renzi ma l’attore/autore ha sottolineato che non si tratta di un emulo dell’attuale primo ministro, bensì di un “carattere” nato dalla somma di vari personaggi politici italiani. Fin da subito si comprende che l’apparenza sia tutto per Pavrini, impegnato col suo fido assistente a farsi frettolosamente intervistare da giornalisti stranieri giacché “I have a country to save”.
Adornato da una colonna sonora classica di facile riconoscibilità (perché è l’apparenza dei grandi nomi a contare..) il politico “danza” la propria gestione istituzionale sulle note di Čajkovskij, Wagner, Mascagni e Verdi citando a destra e manca celebri frasi che diventano sentenze. E, da cinefilo accanito, Diomà non manca di muovere i suoi personaggi dentro a situazioni di film mai casuali: una scena ispirata a Il settimo sigillo di Bergman, un (ovvio) richiamo a Todo Modo di Petri, una certa cadenza “morettiana” nello (spro)loquio di Pavrini. Idee e trovate registiche riempiono questo “oggetto cinematografico” mentre lo accompagnano dentro al sua asse portante, ovvero la lunga intervista di Pavrini con il giornalista italo-inglese Coretti. Ogni domanda/questione chiave del giornalista viene risposta prima da Dario Fo – appunto ripreso autonomamente – e poi dal primo ministro: è naturale che nello scarto tra la Verità espressa da Fo e la “velleità” mostrata dal premier si identifichi la pochezza di questo epigono istituzionale, punta dell’iceberg di una classe politica imbrogliona, vuota e che ama “impapocchiare” l’Italia. Ma d’altra parte “i telespettatori vogliono una rockstar ed io sono una rockstar” reagisce Pavrini, confermando a pubblico interno ed esterno al film che non c’è molta differenza tra il cinema e ciò che resta oggi dell’ars politica: entrambi sono un artificio, una “illusione ottica”.