Ieri, poche ore prima del vertice a 5 con Renzi, Hollande e Cameron, Obama e Merkel erano alla fiera di Hannover, la più importante fiera industriale del mondo, iniziata nel 1947 in questa città distrutta in una sola notte del 1943 e diventata il simbolo della rinascita industriale tedesca dopo gli orrori del nazismo. Si tratta di 5 fiere su cinque temi riunite in un posto solo, automazione industriale, energia, ricerca e tecnologia, industria manifatturiera, digitale; il tema guida della manifestazione è l’industria integrata: cioè l’idea della “quarta rivoluzione industriale”, di gran moda in Germania dal 2011, che consiste nell’integrazione dei sistemi cyber-fisici nei processi industriali, resa possibile dal digitale e dal lavoro in network. L’elemento vincente non è più solo il prodotto industriale o il processo per arrivarci, ma il “collegamento” fra settori e produzioni che “parlano fra loro” e con il consumatore-cittadino-produttore attraverso internet: insomma un’industria “4.0” che produce appunto l’internet of things, in cui qualsiasi cosa sarà connessa per farci vivere meglio e consumare meno (dixit), dalla macchina del caffè alla gru.
Sono anche io ad Hannover, e, pur ammettendo la mia totale incompetenza in materia tecnica e il mio scetticismo totale sul trattato di partnership transatlantica (Ttip) che Merkel e Obama hanno qui cercato di rilanciare, devo dire che è ormai difficile, per un’ecologista che si rispetti, non sentire il fascino di macchine, bulloni, strani impianti a luci psichedeliche, ingranaggi, pompe, robots, aggeggi dall’uso insospettato; anche perché sempre di più la ripresa dell’attività manifatturiera e l’innovazione passano dalla consapevolezza che dobbiamo battere i cambiamenti climatici ed “adattarci” con nuovi prodotti e un nuovo modo di abitare, muoverci, consumare alla scarsità di risorse e ai pericoli dell’inquinamento e che si può trascinare il mondo fuori da povertà e conflitti, superando la nostra dipendenza fossile. Tra i vari stands futuristici, ci sono decine di signori e signorine con cravatte dagli improbabili colori pastello e impeccabili tailleurs che spiegano come risparmiare energia, come rendere la casa totalmente automatizzata, come rendere i processi industriali meno inquinanti ma anche più efficaci, come produrre con materiali “risparmiosi”, come organizzare il lavoro e la produzione in modo coerente con l’obiettivo di slegare lo sviluppo economico dal consumo delle risorse.
Nei discorsi e nelle conferenze ritorna molto spesso il tema dell’accordo di Parigi e la responsabilità del mondo economico; non è sorprendente, dato che una delle novità della COP21 è stata la visibilità di parte del mondo economico e industriale nella sfida climatica. Ovviamente, non tutti sono egualmente entusiasti e si percepisce qua e là anche un po’ di sano “Green wash”. Però, nonostante ci sia ancora molta strada da fare e nonostante molti di questi prodotti così innovativi e ecologicamente corretti non abbiano ancora un mercato, io sono una testarda ottimista, tendenza “e vissero tutti felici e contenti”, e quindi penso che sia davvero importante che nella più grande fiera tecnologica e industriale del mondo la sfida dei cambiamenti climatici sia così presente, a qualche giorno dalla firma dell’accordo di Parigi a New York.
Ovviamente, se penso al modo in cui la politica italiana, gli organi rappresentativi del mondo industriale italiano e i media parlano e agiscono su questi temi, mi passa subito il buonumore. Certo, il discorso di Renzi a New York nel suo inglese divertente aveva un suo perché, con l’immagine dei figli e nipoti a vegliare sui firmatari, le dichiarazioni solenni su rinnovabili al 50% e l’assicurazione che gli eventi del referendum sulle trivelle non avrebbero messo le questioni ambientali nell’angolo, sono sembrate quasi vere; e anche il ministro Galletti si è lanciato commosso in impegni di leadership italiana nella lotta al riscaldamento del pianeta.
Ma tutto questo suona veramente falso e superficiale. Perché in Italia, il contrasto fra ambiente, salute e industria esiste eccome; è un ostacolo importante che sta nella testa dei governanti e opinion-makers nostrani che ci sta svantaggiando e ritardando, nonostante gli sforzi di una parte del settore produttivo che invece ha capito benissimo dove va il futuro, ma ha poca influenza in Confindustria e in politica. Non è un caso che il governo abbia preferito buttare al vento 300 milioni di euro, invece che fare pagare a qualche trivellatore il costo di dover smantellare gli impianti che avrebbero dovuto cessare di funzionare alla fine delle concessioni.
E c’è anche un fantasma che si aggira in Italia che rende complicato un dialogo positivo come invece è facilissimo fare qui in Germania. È’ il temibile “ambientalismo ideologico” capace di bloccare utilissime infrastrutture, mettere in pericolo occupazione e posti di lavoro e intenzionato a riportarci all’età della pietra. Ne ha parlato spesso il presidente Renzi durante la campagna referendaria sulle trivelle, lo ha ripetuto a New York; contrariamente ad altri paesi, parlare di clima e ambiente non pare (ancora) utile a raccogliere consenso, anzi. Insomma essere ambientalisti in Italia è decisamente fuori moda, soprattutto in politica.
Stupefacente, no? Soprattutto in un paese dai molti disastri ambientali, che detiene da anni il record delle procedure di infrazione Ue e che deve pagare multe milionarie affrontate con sovrana indifferenza e nel quale i pericoli di un ambientalismo estremista paiono davvero molto minori rispetto a quello delle lobbies fossili e di un approccio culturale che non sa né vuole distinguere fra attività economiche, investimenti, infrastrutture che ci rendono meno dipendenti dai fossili e meno spreconi di risorse, rispetto a quelle che ci lasciano ancorati alla vecchia e perdente idea di un’industria che per essere tale deve per forza inquinare.
Questo vero e proprio lavaggio del cervello propinato con abbondanza negli ultimi anni da media compiacenti e ignoranti e da un mondo politico indifferente e/o legato a un dibattito di corto respiro e scarsa qualità, ha degli effetti molto pratici che rischiano di rendere la firma dell’accordo di Parigi un atto del tutto velleitario per l’Italia. Nel nostro paese non c’è da anni un dibattito pubblico su una strategia industriale ed energetica che si basi su una visione di futuro e non su vertenze o battaglie mediatiche tra “onesti e razionali” propugnatori di una vecchia industria e un vasto fronte sociale e associativo che paiono l’un contro l’altro armati.
L’assenza di trasparenza e di una reale volontà di mediazione e coinvolgimento del pubblico porta alla radicalizzazione dello scontro, ad anni di estenuanti battaglie di volenterosi cittadini che perdono mano a mano la fiducia in leggi e procedure e capita anche che progetti utili, ma imposti o non spiegati o mal organizzati finiscono nel nulla. Scelte buone o cattive sono quasi casuali o frutto di interessi specifici, e sono sempre discontinue e revocabili, vedasi il disastro delle rinnovabili e la passione improvvisa per il petrolio e il gas nostrani. Credo davvero che sia davvero importante organizzarsi per ribaltare questa situazione, provocata da un misto di sciatteria, mancanza di strategia di futuro e amicizie fossili: anche per evitare di disperdere il patrimonio positivo di quei milioni di persone che hanno votato SÌ al referendum sulle trivelle.