Siamo nel mezzo della crisi energetica più rilevante nella storia dell’umanità. Se per gioco volessimo rappresentare con una novantina di illustri individualità a nostra scelta – da Pitagora a Pericle a Cesare a Carlo Magno a Marco Polo a Napoleone a Einstein a Obama – le generazioni che succedendosi hanno “plasmato la memoria” su cui risiede la nostra civiltà occidentale (90 personalità x 25 anni a generazione =2250 anni di storia), quanti nuovi personaggi potremmo prevedere che possano salire d’ora in avanti sul medesimo palco? A detta del mondo scientifico più responsabile e accreditato non più di quattro o cinque, se si limiteranno a replicare il “business as usual” nelle politiche energetiche, sfasciando irrimediabilmente la ribalta in seguito agli effetti irreversibili di esse sul clima. Molti e molti di più, invece, se risulteranno dall’interpretazione di una svolta radicale rispetto all’odierno sistema fossile centralizzato e asseconderanno la cittadinanza globale nella consapevolezza della priorità delle ragioni della biosfera su quelle della geopolitica.
Occorre riconoscere che siamo in una fase nella quale le contraddizioni interne al sistema energetico dominante non possono più essere risolte ristrutturando il sistema tale e quale. Questa sarebbe la strada più facile da percorrere, ma pure la più irresponsabile, anche se parrebbe quella privilegiata da chi misura il futuro sulle scadenze elettorali (sono, verosimilmente, i casi recentissimi di Renzi con il boicottaggio del referendum, di Cameron con l’impegno a mantenere i 10.000 addetti britannici al carbone, dei premier di Polonia e Ungheria con le dichiarazioni di dar fondo senza alcun riguardo alle loro riserve di lignite).
Le soluzioni alternative che si fronteggiano e che hanno alle spalle culture di solide radici (quella ereditata dall’Illuminismo e dalla rivoluzione industriale e quella più recente definita “dell’ecologia integrale”) e non banali opportunismi, si caratterizzano per valutazioni che si situano in scale temporali e in un rapporto con la natura assai diversi.
C’è quella che si ostina a mantenere in vita il presente nella illusione che le previsioni sul cambiamento climatico non siano confermate e che il trascorrere del tempo venga sanato miracolosamente dal ritrovamento di soluzioni tecnologiche oggi non alle viste. Una ideologia dichiaratamente antropocentrica, prima che una proposta di rimedi provati, nata nella presunzione di risanare a valle la devastazione dei processi biologici e naturali compromessi per tempi incommensurabili dal ricorso a fonti di energia sempre più intense (il nucleare in primo luogo) e con effetti mascherati nell’immediato (il sequestro di CO2, la liberazione di metano per estrarre il petrolio nell’Artico, il confinamento delle scorie). In sintesi: crescita in economia e impiego di trasformazioni energetiche che prescindono dalla compatibilità con il sistema vivente.
C’è, dall’altra parte, l’opzione di trasformare su scala territoriale diffusa le fonti naturali, riducendo strutturalmente attraverso esse i tempi dell’intero ciclo di fornitura (trasporto e distribuzione in particolare), migliorandone costantemente l’efficienza, superandone gli svantaggi di intermittenza e compensazione con sistemi e reti digitali, considerandone l’eccezionale curva di apprendimento che ne abbassa continuamente i costi, rimarcandone la capacità di creare lavoro stabile anche in assenza di crescita e mettendo in rilievo infine la compatibilità dei processi che le utilizzano con l’estensione di un governo democratico dell’economia su base regionale e territoriale. Lo sfruttamento delle fonti rinnovabili – al contrario del percorso ipertecnologico per “rendere puliti” (?) i settori del fossile e del nucleare – si inserisce, agendo a monte, in una dimensione temporale in sincronia con la natura, i suoi cicli, la sua capacità di rigenerazione e si può sottoporre ad un esteso e efficace controllo sociale.
Se non ci si schiaccia sulla tattica politica del momento (e io non sono interessato a seguire il Presidente del Consiglio nella riduzione di temi di questo rilievo alle mene interne al Pd) occorre essere già oggi fuori dalla difesa dell’esistente e non firmare con una mano a New York l’accordo Cop 21 e rilasciare con l’altra crediti alle corporation di gas e petrolio. Se, come indica l’intesa di Parigi, pur con le sue ambiguità e lacune, ci si vuole collocare dalla parte della seconda tra le opzioni descritte sopra, allora essa va praticata da subito in chiave sostitutiva ai fossili e andrebbe favorita e accelerata da processi di efficienza e riadeguamento su tutta la rete di distribuzione, accumulo e scambio, anziché osteggiata da misure tariffarie e incentivi alla rovescia. Quindi, i primi effetti sostitutivi vanno programmati laddove la questione ambientale è più drammaticamente urgente: le centrali a carbone e le trivelle in mare sono un esempio di questa priorità.
Questa sembra oggi, delle due alternative quella indiscutibilmente più in linea con la salvaguardia della vita sul pianeta ed è il quesito vero, di profilo storico, che è stato posto il 17 aprile. Per cui quella data referendaria andrà inquadrata come segnale, ancorché insufficiente, in un processo che è in corso, anche se i media nostrani e il governo non sanno dare ad esso rilievo, presi come sono dallo spostamento quotidiano da una notizia all’altra, schiacciati in un eterno presente da cui non si esce mai, visto che viene conculcata la partecipazione e non richiesta alcuna corresponsabilità. Ci troviamo in un percorso di transizione già in atto, certamente da istruire e completare, ma sul quale un segnale inequivocabile è stato dato: decarbonizzare e, contemporaneamente, assumere soluzioni sostitutive alternative, imprimendo al sistema un orientamento che con il tempo si farà dominante. Oggi il sistema oscilla ancora in modo disordinato, spinto da logiche contraddittorie. Comunque sia, il risultato delle pressioni dei movimenti sociali delle nuove eco-imprese e delle comunità locali si fa sempre più coerente e non è poco. Trovarsi già, pur essendo stati derubati del tempo sufficiente all’informazione e al confronto, con il 30% sul totale degli aventi diritto al voto che auspica e vorrebbe veder svilupparsi un sistema energetico differente.
Una delle curiosità – tra le altre – è che il referendum, secondo Swg, ha richiamato il 16 per cento di chi non vota più per principio alle politiche e un terzo di chi si dice indeciso su chi votare. Inoltre, tra coloro che hanno usato internet come fonte di informazione per capire di più della consultazione sulle trivelle, la quota che si è recata al voto è del 44% rispetto al 29% di chi si è informato solo ai Tg. E’ evidente come si stia formando, fuori dagli equilibri politici e economici, un’opinione avversa alla strategicità del fossile, perseguita da Bersani a Monti a Passera e a De Vincenti secondo l’immagine inquietante dell’Italia “hub del gas” e avvalorata da una strategia energetica nazionale (Sen) mai portata all’approvazione del Parlamento.
E, questa volta, non c’è da accampare per i risultati del referendum la scusa della “complicità emotiva” (come per Fukushima e Chernobyl), tanto più che siamo a condizioni rovesciate, visto che del disastro del petrolio nel Polcevera l’opinione pubblica votante è stata tenuta accuratamente all’oscuro. Anzi, si è fatto forza sull’idea che 2000 posti di lavoro fossero la questione. In questi mesi 50.000 lavoratori delle aziende del gas ex municipalizzate verranno riassunti col Job Act e ripagandosi la pensione, grazie allo scarso interesse del governo per il lavoro. Era dal 2011 (referendum acqua, nucleare e legittimo impedimento), che la politica e soprattutto la narcotizzata società italiana non veniva investita dal dibattito su un tema fondante per il futuro del Paese. I motivi, ma anche i segnali per andare avanti con rigore e contro ogni demagogia ci sono tutti.