di Paolo Iancale
La mattina del 26 Aprile 1945 a San Francisco il cielo era terso, e la fresca brezza primaverile faceva mulinelli delle foglie secche davanti all’Herbst Theatre. Alger Hiss era visibilmente esausto dalla giornata precedente, ma per l’occasione aveva deciso di indossare un completo scuro e la sua camicia bianca preferita. Quella mattina, di fronte ad una folla di giornalisti, avrebbe presieduto una conferenza dal titolo ufficiale “Conferenza delle Nazioni Unite sull’Organizzazione Internazionale”, nella quale vennero elaborati i 111 articoli della Carta, tuttora simbolo dell’Onu. Fu un momento memorabile per l’intera umanità. Il trionfo della ratio diplomatica che, lasciandosi alle spalle l’orrore della seconda Guerra Mondiale, suggellava la nascita di un sistema di governance globale delle crisi basato sui principi della Pace e del Diritto.
A settantun anni di distanza, precisamente il 5 Febbraio 2016, Anthony Banbury – Assistente del Segretario Generale delle Nazioni Unite per le Operazioni sul Campo – rassegna le sue dimissioni dopo trent’anni di servizio che lo hanno portato a svolgere incarichi di grande responsabilità in ex-Jugoslavia, Haiti, Siria e Africa Occidentale. Le sue ragioni sono contenute in una lucida lettera di denuncia inviata al New York Times e pubblicata il 18 Marzo scorso intitolata “Amo l’Onu, ma sta fallendo“. La long-list di Banbury non suona come il solito tentativo di discredito a danno delle Nazioni Unite, quanto piuttosto come un’ammissione dettata dall’esperienza diretta: cattiva amministrazione e spreco di denaro pubblico; burocrazia perversamente contorta e pertanto inutile, se non dannosa; decisioni prese per opportunismo politico; incompetenza; trasparenza e responsabilità ridotte al minimo; vari crimini e gravi violazioni dei diritti umani compiute dagli stessi peacekeeper. Rimane poco dell’idillio di quell’Aprile ’45.
Abbiamo già provato a spiegare sinteticamente perché l’Onu non funziona, glissando volutamente su un aspetto che sta alla base di ciò che Banbury denuncia: l’incapacità d riformare un sistema disfunzionale altamente complesso. Come ha detto lo stesso portavoce delle UN, Stephane Dujarric, “riformare un’organizzazione, le cui regole sono state progettate nel 1945 per asservire uno scopo puramente negoziale, e trasformarle in strumenti efficaci orientati all’azione, è un processo complicato”.
Tecnicamente questo significa che le modalità con le quali si sono formate (e riformate) queste istituzioni nel tempo, continuano ad avere un impatto sul modo in cui queste attuano nuove riforme, gestiscono le loro attività sul campo e rispondono ai cambiamenti del sistema. Questo, in gergo, si chiama “path dependence“. Per renderlo con un paragone più prosaico, se la vostra utilitaria è stata progettata per essere un pratico mezzo di locomozione in città, non ci si può aspettare che, cambiando le gomme, diventi un’affidabile fuoristrada in grado di attraversare dune di sabbia e guadare torrenti.
Stiamo dicendo che le possibilità di riformare le Nazioni Unite restano pura utopia? La risposta, almeno per ora, è sì. I tentativi ci sono (stati), nella maggior parte dei casi orientati a “sburocratizzare” apparati percepiti come costosi e poco dinamici. Ci ha provato Kofi Hannan che, con l’istituzione dell’Office of Internal Oversight Services (Oios), avviò un piano di razionalizzazione – costato “appena” 17 milioni di dollari – per mezzo del quale furono denunciati sprechi e frodi per 250 milioni di dollari e, conseguentemente, licenziati più di 1000 dipendenti. Oggi l’Oios conta più di 350 staffers e gestisce un budget di 61 milioni di dollari l’anno. Sono stati sostituiti la routine con le iniziative, la continuità con flessibilità, e le regole con risultati. Ma nel concreto questi sforzi organizzativi sono diventati a loro volta altamente formalizzati e, invece di snellire i processi, hanno contribuito a ingessare ulteriormente il decision-making e ingigantire la già pesante macchina organizzativa. Siamo di fronte al paradosso per cui i tentativi di riforma generano ulteriori necessità di riformare l’apparato che li ha intrapresi.
Qui potrebbe subentrare la tentazione di addurre l’incapacità dell’Onu di riformarsi a questioni di natura politica, eppure questo è vero solo in parte. Come spiega Tine Hanrieder, il problema risiede piuttosto nell’approccio che i leader delle varie Organizzazioni facenti capo all’Onu (e gli Stati membri che la sostengono) hanno nei confronti del tema. Gestendo meglio i bilanci ed il personale, si scongiurerebbe il pericolo di bloccare fondi alle Agenzie che ne hanno bisogno, per poi sperperali in attrezzature senza personale per gestirle (si pensi al caso WHO-Ebola). Usando un sistema di ri-allocazione più flessibile si eviterebbe di raccogliere finanziamenti vincolati ad obiettivi troppo specifici (denaro che spesso non viene speso). Infine, usando un sistema di valutazione indipendente rigoroso sulle operazioni pianificate dai funzionari a New York, sarebbe garantito il rispetto delle responsabilità anche in casi gravissimi come quelli avvenuti in Repubblica Centrafricana.
Per la fine dell’anno è previsto l’insediamento di un nuovo Segretario Generale. Non c’è che da augurarsi che questo/a porti nuova linfa nei corridoi del Palazzo di Vetro.