Scrivere un libro è un palliativo, qualcosa che mi aiuta a sentirmi meno debole e impotente di fronte alla sofferenza. A ogni punto messo al termine di una frase, mi sono chiesto se ne valesse la pena; se qualcuno avrebbe trovato riparo nelle mie parole. La risposta è no. Ma scrivere è una delle più alte forme di libertà che abbiamo. Scrivere vuol dire dare voce agli oppressi e ai dimenticati: i bambini, i giovani, le donne e gli uomini di un popolo – il mio popolo – orfano della compassione e della solidarietà. Con queste parole, ancora una volta, voglio portare l’attenzione sul dramma siriano. Soprattutto, vorrei che le mie pagine fossero uno strumento per chi è digiuno di Siria. Durante la lettura vi accorgerete che uso il noi sia quando parlo da «occidentale» sia quando parlo da «arabo». La mia storia personale racchiude in sé Europa e mondo arabo, cristianesimo e islam. Non ha senso per me, figlio di un siriano musulmano e di una italiana cristiana, rivendicare una sola identità, anche se c’è stato un tempo in cui credevo fosse necessario scegliere da che parte stare.
Io non ho mai vissuto un giorno sotto le bombe, non conosco il ronzio che fanno prima di colpire, di uccidere. Non ho sofferto la fame, la sete, né ho mai vissuto nella tenda di un campo profughi. Però conosco quello che prova chi vive un dramma dall’esterno. Provo il senso di incomprensione e di abbandono che i siriani provano a causa di un mondo che non conosce la loro storia. È come assistere alla morte della propria madre senza poter fare nulla. Questa è la sensazione, la condizione che più rappresenta quello che voglio descrivervi. Conosco la sofferenza dell’esilio, perché ci sono nato. Ho provato il dramma della perdita, quando sono morti amici e parenti e i loro corpi non ci sono stati restituiti. Ho sperimentato la sofferenza inflitta dall’attesa del ritorno di un carcerato. Ho perfino conosciuto meglio la dignità, il suo valore, guardando negli occhi i bambini e i loro genitori nei campi profughi.
L’insieme delle mie esperienze e riflessioni racconta un mondo che si definisce moderno, culla dei più alti valori umani, ma che continua a ignorare la Siria. Questo libro vuole essere uno sguardo sull’abisso attraverso le lenti del mio esilio. La tragedia siriana è diventata, suo malgrado, anche la cartina di tornasole per tante questioni che ruotano intorno alla contemporaneità, basti pensare alla crisi valoriale ed etica del cosiddetto mondo arabo-islamico e di quello occidentale-cristiano: in Europa l’estrema sinistra e l’estrema destra si ritrovano unite intorno alla figura di un dittatore, Bashar al-Assad; nel mondo arabo abbiamo assistito alla definitiva caduta di miti, super uomini che si erano venduti come difensori della causa araba e che, invece, ne sono stati e ne sono i primi nemici.
La sindrome dell’11 settembre acceca lo sguardo del mondo facendo dimenticare società civili e processi di affrancamento, come le primavere arabe, per preferire dittature reazionarie in nome della stabilità e contro lo spauracchio islamico. Ma il «primo mondo», che accetta il massacro quotidiano di centinaia di siriani e la distruzione di un Paese, si raccoglie a Parigi per «Charlie Hebdo». Possiamo accettare un mondo ipocrita che predica valori che non mette in pratica? Possiamo accettare dittature sanguinarie per salvaguardare i nostri interessi economici e politici, e professarci democratici?
Estratto dal libro Esilio dalla Siria. Una lotta contro l’indifferenza di Shady Hamadi (add editore)