Una volta erano gli Asburgo, i Borbone, la Chiesa di Roma o ancora i francesi: oggi sono i turchi di Erdogan. Ma non in Turchia, in Germania. Così a 228 anni dalla sua prima assoluta il Don Giovanni, capolavoro di Mozart, viene censurato. A finire incriminata è l’aria di Leporello, il celeberrimo Catalogo, quello nel quale il fido servitore del Don Giovanni va elencando a Donna Elvira le mirabolanti conquiste sessuali del padrone: “Madamina, il catalogo è questo, delle belle che amò il padron mio”. E giù a elencare le nazionalità, con relativi numeri, di tutte le signore e signorine, “contesse, baronesse, marchesane e principesse” che l’affascinante Don Giovanni ha predato in giro per il mondo. A quanto pare però, secondo quanto racconta Italia Oggi, i vertici del teatro della Komische Oper (terzo teatro d’opera di Berlino) hanno ritenuto opportuno far eliminare, tra le tante di ogni Paese ed estrazione sociale, proprio le turche: “In Italia seicento e quaranta, in Alemagna duecento e trentuna, cento in Francia, in Turchia novantuna”.
Ma le turche sono diventate all’improvviso persiane, perché “l’affronto” non avrebbe forse fatto piacere a Erdogan, che ha già querelato un comico tedesco per una battuta con relativo processo autorizzato dal governo tedesco. Certo è però che, come sempre accade negli episodi di censura, a sottendere e a motivarli, come anche in questa ridicola occasione che ha comportato lo stravolgimento del libretto di Lorenzo Da Ponte, siano questioni di opportunità politica. Non solo la Germania ci sono 3 milioni di turchi, ma Ankara è in continuo rapporto con Bruxelles per gestire insieme i flussi migratori, diventati uno dei temi principali di divisioni all’interno dell’Unione Europea (con conseguente esborso di cifre di denaro).
La Komische Oper di Berlino ha dunque deciso di optare per uno stile, per usare un eufemismo, più accomodante, non andando in alcun modo a urtare la sensibilità del presidente turco ma sfregiando al contempo un’opera già ampiamente ridicolizzata non solo dalle scelte di regia, che, per acchiappare probabilmente maggior pubblico possibile, ha voluto una messinscena in chiave erotica, ma anche dalla traduzione del libretto dall’originale italiano al tedesco, nefasta abitudine dell’Opera berlinese.
La censura, certo, non stupisce più di tanto il mondo dell’opera, che nei secoli ha dovuto sopportare spesso questa “consolidata tradizione”. La Norma di Vincenzo Bellini ad esempio si vide addirittura cambiare il titolo nei teatri papalini, in quanto l’originale era termine usato nel diritto canonico. A venire però ampiamente onorate da ogni genere di attenzione censoria, più di tante altre, furono le opere di Giuseppe Verdi: dagli Asburgo al Papato fino ai Borbone non vi fu regnante che non abbia messo mano alle opere del cigno di Busseto, setacciando ogni singola riga dei libretti dei vari Piave, Cammarano e Solera. Rigoletto è caso emblematico per eccellenza: lunghe ed estenuanti furono le contrattazioni con la censura austriaca per la prima assoluta del 1851 al Teatro La Fenice di Venezia.
Alla fine se ne uscì vivi (o quasi) con un accordo costituito da ben sei clausole che prevedevano, tra le varie ed eventuali, la trasposizione dell’azione scenica dalla Francia di Francesco I alla corte del Ducato di Mantova, al tempo non più esistente, entrando addirittura nel merito delle singole scene e modificandole a seconda delle esigenze e della “sensibilità” governativa. Cose a dispetto delle quali le turche di Mozart e Da Ponte sembrano davvero poca roba. Ma che succedevano oltre 150 anni fa.