Abd al-Hamīd al-Bakkūsh, l’ex primo ministro libico fuggito al Cairo dopo che Gheddafi prese il potere nel ’68, morì insieme ai suoi consiglieri il 4 dicembre 2007 in un incidente aereo nei pressi di Riyad, in Arabia Saudita, durante un viaggio diplomatico. Lo avevo intervistato al Cairo alla fine degli anni ’80 e , finita l’intervista in cui mi aveva raccontato come il Colonnello avesse eliminato tutti gli oppositori, mi disse : “A proposito, simpatico il vostro Andreotti! Ogni volta che Gheddafi mandava dei killer a uccidere un oppositore in Italia , i vostri servizi gli ridavano il passaporto e li mettevano su un areo per Tripoli. E’ accaduto almeno due volte”.
Oggi, soggetti diversi accusano il governo Renzi di aver aspettato sin troppo a ritirare l’ambasciatore dal Cairo e alcuni temono che, date le dimensioni dello scambio commerciale con l’Egitto , si tratti solo di una messa in scena temporanea, ma la storia delle nostre amicizie con i tiranni della terra è molto più antica, basti pensare al baciamano e all’accoglienza trionfale riservata da Berlusconi a Gheddafi. Il Colonnello pretese di istallarsi in una tenda – una specie di prolungamento del territorio libico in Italia – e ottenne pure che centinaia di “Gheddafine” , fossero scelte con un apposito casting e pagate profumatamente per assistere alle “lezioni di Corano” di uno stupratore seriale, che già vent’anni prima impiccava gli studenti in diretta tv.
“Somoza may be a son of a bitch, but he’s our son of a bitch” , “Somoza può essere un figlio di puttana ma è il nostro figlio di puttana”, diceva nel 1939 Franklin Delano Roosevelt del futuro dittatore del Nicaragua. Con l’appoggio americano, Anastasio ‘Tacho’ Somoza regnò sul Nicaragua per 20 anni , esiliando gli oppositori, piazzando i parenti nei posti chiave e accumulando una fortuna personale , mentre la Guardia Nazionale faceva affari nei servizi postali , nelle telecomunicazioni e nella sanità, proprio come fa oggi l’esercito egiziano.
A Gheddafi, “il nostro” figlio di puttana, fu affidato il compito di “contenere” il traffico degli immigrati che arrivavano in Libia dall’Africa e dal Medio Oriente, la più grande tratta di esseri umani dal tempo della schiavitù. E bisogna riconoscere che il Colonnello mantenne le promesse, anche se a un prezzo altissimo. Gli stupri e le torture che avvenivano nei suoi lager scandalizzarono l’Europa. Parlando dei respingimenti a mare, un prete molto noto a Milano mi disse: “Roberto Maroni (all’epoca ministro degli Interni, ndr) ha le mani sporche di sangue”, ma è anche vero che la stessa Europa, che inorridiva di fronte alle immagini dei migranti spinti nel deserto verso la morte per sete, aveva lasciato l’Italia da sola ad affrontare la migrazione.
Dopo alcune migliaia di morti l’Unione Europea ha finalmente preso in mano il problema delegandolo , questa volta al suo “son of a beach”: Recep Tayyip Erdogan. La corsa a corteggiare il “nostro figlio di puttana“ non ha accompagnato solo chi stava al governo, ma anche l’opposizione, raggiungendo, con la Lega, livelli cinematografici di umorismo involontario.
La “diplomazia del selfie” di Matteo Salvini che paragona la Corea del Nord di Kim Yong Un alla Svizzera, offrendosi come brassuer d’affairs degli imprenditori padani o che corre ai piedi di Vladimir Putin, chiedendo l’azzeramento delle sanzioni per la guerra all’Ucraina, fa già prevedere che cosa accadrà con il generale Al Sisi , se il governo manterrà una linea di fermezza che potrebbe suscitare rappresaglie economiche.
A Torino, come ha riportato il Fatto Quotidiano, quando Piero Fassino ha invitato “il ministero degli Esteri italiano a richiedere al governo egiziano un’inchiesta rapida e indipendente su quanto è accaduto a Giulio Regeni, il consigliere comunale di Fratelli (in questo caso coltelli) d’Italia Maurizio Marrone ha lasciato l’aula insieme a due leghisti, dicendo di dubitare che Regeni fosse un semplice ricercatore. “Era legato a un’agenzia di intelligence inglese?”, ha chiesto Marrone rilanciando un’accusa smentita più volte, anche dalla famiglia e difendendo Al Sisi come “l’unico baluardo laico contro l’avanzata del Califfato in tutto il Nord Africa”.
Nel 1993 andai a Tbilisi per un servizio sulla guerra fra Georgia e Abkhazia, un’enclave russofona della Georgia, che si era dichiarata indipendente e che, in pochi mesi , grazie alle armi russe e ai coltelli ceceni, avrebbe espulso 500.000 georgiani. Negli stessi giorni in cui io volavo a bordo di uno scassatissimo Mi8 per i tipici servizi mordi-e-fuggi dei tg, un soldato georgiano che si chiamava Georgiy Gongadze, veniva ferito per la seconda volta. Considerato un eroe e trasferitosi in Ucraina, Gongadze fondò il giornale online “Ukrayinska Pravda” e fu uno dei primi giornalisti investigativi a lavorare nel Paese all’epoca degli oligarchi. La pagò cara. Dopo aver denunciato, anche organizzando dimostrazioni negli Stati Uniti, i legami del presidente Leonid Kuchma con la mafia ucraina , nel 2001 venne pedinato a lungo dai servizi segreti e poi scomparve. Il suo corpo decapitato venne ritrovato in una foresta un mese dopo e la sua morte , che scatenò proteste di massa, accelerò quella rivoluzione arancione che tre anni più tardi avrebbe travolto il Paese. Un tribunale – racconta un articolo scritto da Matthias Williams per la Reuters e pubblicato dal Mail Online –stabilì che l’omicidio fu commesso da un gruppo di poliziotti.
Gongadze , che fu riconosciuto solo grazie una vecchia scheggia di guerra ancora conficcata in corpo, è stato sepolto a Kiev solo pochi giorni fa, il 22 marzo 2016. Gli amici e i colleghi hanno dovuto aspettare la morte della madre, che avendo già perso un altro figlio in circostanze misteriose, non volle mai riconoscere che quel corpo decapitato fosse quello del suo Georgiy. Accusato di essere il mandante dell’omicidio , il presidente Leonid Kuchma, ha sempre negato ogni responsabilità sebbene fosse stato intercettato mentre diceva che “bisognava occuparsi di Gongadze”.
L’unico che lo ricevette, quando ormai l’Europa lo considerava un impresentabile , fu Silvio Berlusconi che al “Club dei Dittatori” aggiunse anche Robert Mugabe e Isaias Afeworki, l’uomo che intervistai nel 1986, giovane leader guerrigliero in camicia, fra le rovine di Nacfa in Eritrea e che oggi ha trasformato il Paese in un lager, talmente duro che migliaia dei suoi concittadini fuggono in Italia. Nello scacchiere dello scontro fra stati falliti come la Somalia e la Libia o infiltrati dal fondamentalismo come il Sudan e ieri l’Egitto, l’Eritrea (come l’Etiopia) è un alleato strategico dell’Occidente.