È scritto nero su bianco nelle motivazioni della sentenza con cui il 28 gennaio aveva assolto, perché il fatto non sussiste, i due ex esponenti 5 stelle. Erano finiti indagati nella maxi-inchiesta per peculato della procura della Repubblica assieme ad altri 39 colleghi di tutti i partiti
Giovanni Favia e Andrea Defranceschi da consiglieri regionali furono esempio di “estrema oculatezza nella gestione del danaro pubblico”. Altro che “spese pazze” insomma. È il parere del giudice per le udienze preliminari di Bologna Rita Zaccariello. È scritto nero su bianco nelle motivazioni della sentenza con cui il 28 gennaio aveva assolto, perché il fatto non sussiste, i due ex esponenti 5 stelle, tra i primi nel Movimento a sedere in una assemblea così importante come il parlamentino dell’Emilia-Romagna. Favia e Defranceschi erano finiti indagati nella maxi-inchiesta per peculato della procura della Repubblica assieme ad altri 39 colleghi di tutti i partiti. Un’inchiesta nella quale le pm Antonella Scandellari e Morena Plazzi hanno contestato tutte le spese considerate non inerenti al mandato del gruppo in consiglio.
Ma secondo il giudice, che ha giudicato in rito abbreviato, le spese di Defranceschi e Favia (difesi rispettivamente dagli avvocati Paola Maschio e Francesco Antonio Maisano), “sono del tutto ordinarie e scevre di qualsivoglia stravaganza”. Anzi. A spazzare via qualunque sospetto sul fatto che i due possano avere “largheggiato sulle spese per soddisfare scopi personali” ci sono le carte. Da maggio 2010 al dicembre 2011, periodo oggetto d’inchiesta, il gruppo M5s ha avuto “contributi per complessivi 456.510 euro e ha sostenuto spese per 315.578 euro, accantonando un avanzo di ben 140.831”. Nel caso dei rimborsi per pranzi e cene, il giudice nota, “il fatto stesso che i prezzi medi di ogni singolo pasto consumato, documentato e rimborsato, oscillino tra i 10 e i 25 euro per persona e che su 189 contestazioni ben 149 siano relative a consumazioni presso bar, ristorante e pizzerie situate in zone limitrofe alla sede regionale” dimostra la “particolare frugalità e oculatezza nella spesa del danaro pubblico e contrasta, sul piano logico, con l’ipotesi che in tal modo Defranceschi e Favia intendessero perseguire indebiti scopi personali”.
A settembre 2014 Defranceschi fu escluso direttamente da Beppe Grillo dalle primarie online per la corsa alla rielezione, proprio perché risultava indagato. Un mese dopo arrivò per lui anche l’espulsione: Defranceschi fu infatti condannato in primo grado da parte della Corte dei Conti alla restituzione di circa 7 mila euro, pagati dal gruppo del Movimento 5 stelle, tra il 2010 e il 2012, per le cosiddette ‘interviste a pagamento’. Contro quella sentenza pende ancora un ricorso in appello, ma Defranceschi, che oggi fa il pasticcere, fu immediatamente espulso. Favia era stato invece espulso nel 2012.
Il 28 aprile intanto sono stati assolti in rito abbreviato anche altri due consiglieri che erano finiti nella stessa inchiesta: Gian Guido Naldi (difeso dagli avvocati Libero Mancuso e Andrea Gaddari) e Gabriella Meo (difesa dall’avvocato Guido Magnisi) del gruppo Sel-Verdi. Nel bilancio della maxi inchiesta finora erano arrivate anche le condanne in primo grado dell’ex capogruppo Idv Liana Barbati, dell’ex gruppo misto Matteo Riva e di una sua collaboratrice, un patteggiamento per il leghista Roberto Corradi. Assoluzioni invece per Matteo Richetti, Anna Pariani e Marco Barbieri del Pd, per Roberto Sconciaforni di Rifondazione e per l’Idv Sandro Mandini. Altri 13 consiglieri Pd sono a dibattimento, così come tre della Lega Nord. Non si sono ancora concluse invece le udienze preliminari di Pdl e Udc.
Tra i pm per il momento c’è cautela sul commentare le assoluzioni. Molti dei consiglieri regionali che avevano tra le accuse le spese più eclatanti (pranzi e cene costose, gioielli, notti in hotel apparentemente ingiustificate), devono infatti ancora essere giudicati. “In generale per questa inchiesta leggeremo sempre con attenzione le motivazioni”, ha spiegato il procuratore aggiunto Valter Giovannini. “E la Procura sicuramente propone appello quando l’assoluzione segue la formula ‘perché il fatto non costituisce reato’. Si ritiene infatti indispensabile, in una materia così controversa, mai voluta regolare con una norma specifica, il pronunciamento della Corte di Appello, unico giudice che possa dare un‘interpretazione uniforme a decisioni che appaiono alle volte contrastanti su di loro”.