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Uber pop, il tribunale contro l’app. ma l’esecutivo la riaccende. Cui prodest?

Qual è il principio cardine della democrazia? La separazione dei poteri di uno stato: il legislativo, l’esecutivo e il giudiziario. Nessuno di questi può prevaricare l’altro e ciascuno deve procedere indipendentemente su binari che mai possono cozzare o frapporsi. C’è una vicenda che in questi giorni si sta consumando e che potrebbe essere l’esempio di come alcune perniciose mescolanze vengono messe in atto, confondendo il potere esecutivo con quello giudiziario e legislativo… Ma a vantaggio di chi? Questo è il dilemma, certo non della comunità!

All’incirca un anno fa il Tribunale di Milano accolse il ricorso presentato dai tassisti, disponendo il blocco di “Uber-pop“, uno dei servizi messi a disposizione dalla app Uber su tutto il territorio nazionale, per “concorrenza sleale”. L’applicazione permetteva a chiunque di trasformarsi in improvvisato tassista, senza fornire però le necessarie garanzie all’utenza, senza licenza né una preparazione appropriata da mettere in campo, potendo dall’oggi al domani trasportare cittadini, permettendo un trasferimento di denaro che lo stato non riesce peraltro a tassare.

La giustizia, seguendo la legge, ha deciso di mettere uno “stop” a tutto questo. Ma l’11 marzo di quest’anno (notizia trapelata solo ora) una circolare del Dipartimento della Pubblica sicurezza del Ministero dell’Interno, consiglia alla Polizia stradale di starsene sulle sue, osservare, ma non sanzionare. La circolare, diretta “ai signori dirigenti dei compartimenti di Polizia stradale” riporta come oggetto: “Intermediari del trasporto. Sistema Uber ed Uber pop. Accertamento e contrasto violazioni”. Essa esordisce ricordando le criticità connesse al “diffondersi del fenomeno dell’intermediazione nel trasporto di persone, effettuato, in particolare, attraverso nuove forme di organizzazione e gestione telematica del servizio”; successivamente spiega poi che il Dipartimento “scrivente” aveva richiesto un parere al Consiglio di stato in merito all’applicabilità delle sanzioni previste dal “vigente” Codice della strada.

I giudici amministrativi hanno risposto che, sulla materia, la legislazione vigente, risultava per loro “incompleta”, anche se a ben vedere incompleta non è, visto che i tribunali continuano a respingere i ricorsi di Uber. Al ministero, ciò è bastato per sentenziare quanto segue: “In mancanza di elementi ermeneutici che consentano di superare gli esposti dubbi circa l’individuazione delle violazioni contestabili, non vi sono presupposti per l’applicazione di appropriate sanzioni a carico dei prestatori di tali nuovi servizi di trasporto di persone”.

Una circolare di un dipartimento di una branca dell’esecutivo, quindi, invita a non mettere in atto una disposizione voluta dal Parlamento e sancita da una sentenza della magistratura, ovvero vietare la circolazione degli autisti Uber pop. E’ poi singolare che lo faccia in base alla sventolata “perizia” del Consiglio di Stato, che però avendo solo formulato un parere, non ha certo stabilito di superare disposizioni giudiziarie già in essere e comunque, come già fatto notare da illustri giuristi su siti specialistici “non sussiste alcuna esimente o causa di giustificazione dall’osservanza delle norme di interesse collettivo che disciplinano la circolazione stradale”. (R. Amoroso, Altalex 26/04/16). L’esecutivo non può certo chiedere ai giudici di disapplicare la normativa vigente. L’esempio fatto in questo caso potrebbe sembrare di nicchia e riferito a un aspetto molto limitato della società. Ma se invece questo fosse un modus operandi assolutamente diffuso nella dialettica in essere tra i poteri che contraddistinguono il nostro Stato?  Direi che vale la pena meditare, non trovate?