È vero che la vigilanza della Bce favorisce le banche del Nord (tedesche) e martella quelle del Sud (italiane)? I dati dell’ultimo rapporto annuale non fugano i dubbi, anzi li alimentano, sulla base di quattro indizi. Occorre più trasparenza per acquisire la reputazione di arbitro imparziale.

di Angelo Baglioni* (Fonte: lavoce.info)

La vigilanza della Bce

L’attività di vigilanza attuata finora dalla banca centrale europea ha sollevato dubbi sulla sua imparzialità e sulla sua adeguatezza rispetto al quadro macroeconomico.
La recente pubblicazione del Rapporto annuale della Bce, relativo al 2015, è l’unica fonte di informazioni sistematiche, che può aiutare a farsi una opinione basata su dati oggettivi. Tuttavia, la lettura del rapporto non fuga tutti i dubbi, anzi solleva pesanti interrogativi. Per riassumere, si ha l’impressione che l’attività di supervisione della Bce sia concentrata su alcuni tipi di rischi, soprattutto quello di credito, mentre altri, come quello di mercato e quello legale, siano trattati con un tocco più leggero.
È solo un sospetto (di seguito alcuni indizi), ma se fosse confermato farebbe sorgere spontanea la conclusione che la vigilanza unica favorisca le banche di alcuni paesi a scapito di altri. In particolare, risulterebbero favoriti gli istituti che hanno un business più focalizzato sulle attività di trading e che sono stati più coinvolti nelle cause miliardarie relative alle truffe sui mercati dei cambi e interbancario. Al contrario, le banche più concentrate sul credito alla clientela sarebbero più pressate dalla vigilanza europea. Intendiamoci: se ciò fosse vero, non dovrebbe essere un alibi né per le banche italiane, che hanno accumulato una mole enorme di sofferenze, né per il nostro governo, che su questo fronte è intervenuto con iniziative discutibili, come la garanzia statale sulle cartolarizzazioni (Gacs) e il fondo di sistema (Atlante). Rimarrebbe però il fatto che altrettanta severità andrebbe esercitata sulle banche tedesche e francesi.

bce

Indizi di scarsa imparzialità

Indizio 1: le priorità della vigilanza. Il rapporto indica le priorità che guidano l’azione di vigilanza nel biennio 2015-2016. Vi figurano il controllo del rischio di credito e di liquidità, nonché quello informatico (cyber risk). Non vi rientrano né il rischio di mercato, tipico della attività di trading in titoli e in prodotti derivati, né quello legale, tipico degli intermediari che hanno rivelato deboli sistemi di controllo interno rispetto al rischio di frode (Deutsche Bank ha registrato nel 2015 una perdita di bilancio di oltre sei miliardi, in buona parte dovuta agli oneri derivanti dalle liti giudiziarie).
Indizio 2: le ispezioni. Su 250 ispezioni fatte nel 2015, solo 13 (cioè il 5%) riguardavano il rischio di mercato, mentre al rischio di credito ne sono state dedicate 62 (un quarto del totale).
Indizio 3: esame dei modelli interni. I modelli interni sono i metodi utilizzati da alcune banche per calcolare i loro requisiti di capitale. Nel 2015, la Bce ha fatto 127 controlli sulla loro validità: 99 (78%) erano relativi al rischio di credito, mentre solo 12 (meno del 10%) erano sul rischio di mercato e pochissimi (5, cioè meno del 4%) hanno interessato il rischio di controparte, tipico dei contratti derivati.
Indizio 4: Aqr-stress test. Nel 2015, la Bce ha effettuato una Asset Quality Review e uno stress test su nove banche, che sono passate sotto la sua supervisione diretta nello stesso periodo. Il metodo utilizzato è stato lo stesso usato nel 2014 per il test sulle 130 banche passate in quell’anno sotto la supervisione diretta. Peccato che quel metodo fosse già stato sottoposto a pesanti critiche soprattutto per il fatto che si basa unicamente sul rapporto tra patrimonio e attività ponderate per il rischio (Cet1 ratio), che avvantaggia le banche maggiormente orientate all’investment banking rispetto al commercial banking. Un semplice indicatore di leva (rapporto tra patrimonio e attività non ponderate per il rischio) sarebbe più imparziale.

Necessaria più trasparenza

Sono solo indizi, che andrebbero possibilmente fugati da una analisi più approfondita. Peccato che i dati sui quali fare una verifica non siano disponibili. Il sito web della Bce è avaro di informazioni, con l’unica eccezione dell’esame sulle principali banche europee (comprehensive assesment) fatto nel 2014. Dopo questo iniziale sfoggio di trasparenza, la Bce si è trincerata dietro una riservatezza che sconfina nella opacità. Il difetto di comunicazione alimenta i dubbi sulla imparzialità della vigilanza europea. Crea anche incertezza sulle prossime mosse della Bce, ad esempio sui requisiti patrimoniali, contribuendo così alla volatilità dei titoli bancari sui mercati finanziari. Una maggiore trasparenza sarebbe anche più coerente con il regime del bail-in, con il quale si richiede agli investitori (anche al dettaglio) di valutare il rischio dei titoli e dei depositi bancari in cui investono. In conclusione, una maggiore trasparenza potrebbe giovare alla reputazione della stessa Bce quale responsabile della supervisione bancaria nella zona euro.

*Insegna Economia Politica presso l’Università Cattolica di Milano, Facoltà di Scienze Bancarie, Finanziarie e Assicurative. Ha recentemente insegnato anche al Master in Economia e Banca presso la Facoltà di Economia R.M.Goodwin dell’Università di Siena. E’ membro del Comitato direttivo e scientifico del Laboratorio di Analisi Monetaria (Università Cattolica di Milano e Associazione per lo Sviluppo degli Studi di Banca e Borsa). Dal 1988 al 1997 è stato economista presso l’Ufficio Studi della Banca Commerciale Italiana (ora Intesa Sanpaolo), come responsabile della Sezione Intermediari Finanziari. I suoi interessi di ricerca si collocano nell’area dell’economia monetaria e finanziaria. Ha scritto libri e articoli pubblicati su riviste internazionali. E’ laureato in Università Bocconi e ha conseguito il Master in Economics presso la University of Pennsylvania. Redattore de lavoce.info.

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