“Fatico a comprendere come si continui a dire che il nostro è stato un tentativo di separare la valorizzazione del patrimonio culturale dalla tutela. In realtà abbiamo tentato di distinguere i compiti e le finalità pubbliche creando un equilibrio territoriale”, ha detto il ministro dei beni culturali Franceschini, intervenendo il 21 aprile alla presentazione del libro di Lorenzo Casini “Ereditare il futuro. Dilemmi sul patrimonio culturale“. Quanto quell’equilibrio territoriale sia precario, quanto la distinzione di compiti e finalità pubbliche sia incerto non lo sostengono ostinati detrattori. Né tanto meno elitari rappresentanti di una casta che osteggia qualsiasi cambiamento.
A certificarlo sono le notizie che giungono da ogni regione d’Italia, esito naturale di politiche scellerate nelle quali la riforma delle soprintendenze costituisce soltanto cronologicamente l’ultimo intervento. Notizie sull’utilizzo di aree archeologiche e musei, ma anche di palazzi storici per eventi di ogni tipo. Ben inteso, eventi indiscutibilmente privati. Come aperitivi, matrimoni, convention aziendali, vernissage e perfino incontri politici. Servono profitti! Quindi avanti con chiusure temporanee, parziali e totali, di spazi pubblici. Quasi sempre spazi rappresentativi e in condizioni di conservazione tali da far bella mostra di sé. In ogni caso chiusure che penalizzano la libera fruizione.
Creano le premesse per un pericoloso discrimine tra il semplice visitatore e l’imprenditore di turno. Non è tutto. In questa operazione di nuovo marketing, che ha da tempo investito il patrimonio italiano, ci sono i riutilizzi. Ville e palazzi storici soprattutto, ma anche tipologie più specifiche come fari e forti militari, conventi e castelli, sparsi da nord a sud del paese. All’interno dei centri abitati, oppure isolati tra campagne e montagne. Beni, in gran parte di proprietà del demanio, messi sul mercato. Non di rado proprietà comunali e regionali. Un’asta per ricchi in cerca di un luogo prestigioso nel quale risiedere, il più delle volte nel quale sviluppare un nuovo business. Hotel a 5 stelle, come si accade a Venezia, B&B affacciato sui resti del foro romano, come accade a Brescia, appartamenti come accade a Firenze nel Palazzo della Beatrice dantesca.
Esempi di un riutilizzo che sembra non avere regole. Verrebbe da dire, accortezze. Il palazzo del seicento trattato alla stregua del faro novecentesco. Ogni struttura come ciascun complesso, poco più di una elemento da monetizzare. Questo il punto. Questa l’idea di fondo, che accomuna la riforma delle soprintendenze e la lista dei beni demaniali da mettere in vendita, con il corollario della riorganizzazione dei musei, di alcune misure dello “Sblocca Italia” e della legge Madia. La chiamano valorizzazione, anche se ha tutta l’aria di essere un’enorme dismissione. Articolata, certo. Ma pur sempre una dismissione. Nella quale i Beni Comuni vengono progressivamente cancellati, per diventare di pochi.
Un’autentica emergenza culturale nella quale la valorizzazione, nella sua interpretazione corrente, diviene lo strumento non per esaltare monumenti e siti archeologici ma per farne contenitori di eventi. Insomma qualcosa tra un set cinematografico e un palcoscenico. Mentre la tutela appare scriteriatamente dimezzata. Con nuove soprintendenze onnicomprensive che dovranno districarsi tra organici esigui e criticità crescenti. Ulteriormente e forse definitivamente relegate ad un ruolo di subalternità decisionale. Per questi motivi i rischi. anche se meno evidenti, sono grandissimi. La rincorsa negata, ma reale, a questa pseudo valorizzazione senza alcun limite e separata dalla tutela, sta rapidamente avvicinando il paese non soltanto a un’emergenza culturale ma anche della repubblica. Sempre meno garante della tutela ad esempio del paesaggio e del patrimonio storico e artistico.
Sempre meno promotrice dello sviluppo della cultura che da bene comunitario si sta trasformando in risorsa per pochi. Anche per questo la manifestazione nazionale “Emergenza cultura” del 7 maggio, in piazza Barberini, a Roma è un’opportunità per dimostrare che esiste ancora un pensiero divergente. Che il patrimonio è un bene inalienabile, di tutti. “Prima classe, il passeggero è un miliardario forestiero. – Italia bella, io comperare. Quanti dollari costare?-. Ma il ferroviere, pronto e cortese: – Noi non vendiamo il nostro Paese”, scriveva nel 1960 Gianni Rodari in “Filastrocche in cielo e terra”. Il rischio che qualcuno voglia vendere il Paese esiste. E’ realtà, non è letteratura.