Questa è una storia da pazzi che può capitare solo in un paese da pazzi. È ambientata in un ristorante milanese, zona Navigli. Ci arrivo alle nove di sera, appuntamento in famiglia. Mi siedo dando le spalle al tavolo messo in perpendicolare dietro al nostro e in un minuto mi rendo conto che ne provengono concetti e parole che mi urticano. E mi allarmano. Per costume non ascolto i discorsi altrui, nemmeno le urla da tarzan sui cellulari in treno. Ma qui è proprio impossibile. Sono dietro di me, e parlano ad alta, altissima voce. Domina tra loro una specie di predicatore. Ci vuol poco per capire che è il capo, un miles gloriosus della scienza della corruzione. Con il tono di chi tutto sa e ha visto, e uno sgradevolissimo birignao aziendale, spiega ad altri tre commensali i trucchi delle aste e degli appalti.
Racconta i segreti. Come maneggiare le percentuali, come partecipare alle aste, come trovare la persona giusta, perché in questi casi ci vuole, dice, una persona di buon senso. Mi volto di sbieco, è pure abbastanza giovane, largo ai giovani d’altronde. E che il tipo sappia perfettamente come farsi largo, non c’è dubbio. Non ha nessun pudore a parlare di affari sottobosco. Non credo mi abbia riconosciuto, ma c’è pur sempre accanto a lui una famiglia di adulti, c’è un ristoratore per bene che sta facendo il suo lavoro, c’è una giovane cameriera. Tutti possono sentire, anche perché il mister è un fiume in piena. Semplicemente se ne fotte. Parla di come piazzare gente in Finmeccanica, tutti lì vanno a finire, garantisce. In un turpiloquio continuo, un c… dopo l’altro, e un inesauribile invito a interlocutori assenti a non rompergli i c…, racconta di quando era in Telecom, della Bergamo-Brescia, poi esalta i pregi della sanità, e questi li sapevo anch’io avendoli studiati.
A un certo punto dice anche il suo nome: “Mettiamo che io, A. B., venga chiamato…”. Penso: ma non può essere così fesso da fare anche il suo nome in pubblico con quello che sta dicendo. E invece un commensale trenta secondi dopo lo chiama esattamente Andrea. Allora è vero. Affarista e stupido, è evidente. Ora non diteci più che fanno affari perché hanno un’intelligenza diabolica. No, qui siamo rasoterra. Spiega che stanno interessandosi del polo fieristico di Rimini, questo lo sento distintamente, mi sembra che lo metta in sequenza anche con quello di Bologna. Gli altri tre lo stanno a sentire. Ogni tanto fanno una domanda, uno ha l’accento bresciano o bergamasco, difficile capirlo da dieci parole.
Il discorso diventa un vero comizio. “Il messaggio è: se fai quello che dicono loro alla fine guadagni”. Racconta di quando per aiutare un notissimo manager (di cui fa il nome) di un colosso della revisione contabile si è sporcato la fedina penale (“interna”, precisa subito: ovvero la sua deontologia), mostra progressivamente una consumata abilità nel parlare con perifrasi e allusioni che tutti però possono decifrare, spiega che ci vuole sempre uno “che dirige il traffico”. A questo punto mi arrabbio, vorrei sbottare, gridargli che sono loro, questi deficienti, a mandare in rovina l’Italia, poi penso che se mi riconoscesse si confermerebbe nella sua sicumera: solo dei moralisti incalliti possono sbraitare, il paese è con noi.
Mia moglie mi scatta una foto: viene molto bene, anche perché così il tipo viene immortalato a futura memoria. Prendo un tovagliolo, che ho conservato, e inizio a scriverci quel che sento. A. B. non vede nulla, è preso dalla sua sacra missione di predicatore. Dice che gli piace mettersi il cappello dello “strategy” (fantastico!), che bisogna fare un gioco di squadra e che lui ha il suo uomo all’Avana. Uno dei commensali gli domanda con deferente speranza se si può davvero fare un gioco di squadra. Lui rassicura, bonario e inclusivo, ogni tanto battendo il pugno sul tavolo. Dice che ci vogliono “persone cazzute” (e voi, fessacchiotti, andate a Boston a studiare business!?) e che “abbiano un mercato”. Invoglia il gruppo a procedere: facciamo delle consulenze, “mettiamo su una squadra di manager e ci diamo un obiettivo”. Uno chiede se staranno tutti insieme, lui garantisce di sì.
Alla fine ho il nome, la foto, i discorsi. Mi domando con che faccia, quando vengono intercettati, questi si risentano per la violazione della privacy visto che mi hanno assordato, contro la mia volontà, per due ore. Direte voi: ma dove sta la bella notizia delle Storie italiane? Amici, la bella notizia è che a furia di impunità sono diventati fessi. Non bisogna più nemmeno scoprirli.
Da Il Fatto Quotidiano del 30 Aprile 2016