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Molfetta, il Pd diserta il voto e il sindaco Natalicchio (Sel) si dimette: “Meglio che vivacchiare sotto ricatto”

Il primo cittadino si era già dimesso nel 2015, ma rispetto ad allora i rapporti con i dem si sono ulteriormente deteriorati. Ma quanto accaduto nessuno lo relega ad un episodio meramente locale: per molti la mutazione del centrosinistra a trazione renziana ha avuto riverberi anche nel tacco d'Italia

Lo definisce un “fatto di onestà”. Perché è meglio andare a casa piuttosto che “vivacchiare” per di più “sotto ricatto”. Paola Natalicchio non è più sindaco di Molfetta. A 300 giorni di distanza dalla prima crisi che la portò a rassegnare – e ritirare – le dimissioni, questa volta la scelta sembrerebbe “irrevocabile”. Rispetto al luglio 2015, i rapporti con il principale partito della sua coalizione, il Pd, si sono ulteriormente deteriorati. Ma quanto accaduto a Molfetta nessuno lo relega ad un episodio meramente locale. Perché la mutazione del centrosinistra a trazione renziana, ha avuto riverberi anche nel tacco d’Italia.

La Natalicchio, difatti, è stata eletta nel 2013 con una coalizione formata da Pd, Sinistra Ecologia e Libertà e Centro Democratico. Ma nelle ore in cui la crisi è scoppiata dirompente nell’aula del Consiglio comunale, Denis Verdini incontrava i dem a Montecitorio e il sottosegretario Massimo Cassano, leader della pattuglia degli alfaniani di Puglia, acconsentiva all’ingresso in Area Popolare di Realtà Italia, movimento nato nelle file del centrodestra, poi transitato nel centrosinistra e ora battitore libero “con spirito critico” e annesso sostegno, al sindaco di Bari. Una coincidenza? Non secondo chi bazzica nei corridoi dei partiti. Non secondo la stessa Natalicchio, convinta di essere dinnanzi ad un centrosinistra “biodiverso”, che ha smesso di fare il “centrosinistra” e di farle “sentire la fascia addosso”. E nemmeno per il renziano Marco Lacarra, segretario in pectore del Partito Democratico pugliese (il 15 maggio sarà ufficializzata la sua successione a Michele Emiliano): “Il governo nazionale si è allargato al centro in maniera consistente, la stessa cosa sta avvenendo nel governo regionale dove Area popolare dialoga in maniera chiara con la Regione. Gli enti locali devono uniformarsi. Mi rendo conto – spiega Lacarra – che chi ha una visione di sinistra radicale possa scandalizzarsi, ma al di là di quelle che sono le strategie politiche, il confronto avviene sui temi”.

E qui si intersecano le vicende più strettamente legate al territorio. Il Partito Democratico ha mal digerito la scelta della sindaca di assegnargli solo due caselle della giunta. Ne voleva di più. “Ma non per un fatto di poltrone – chiarisce Lacarra – ma perché nella composizione della maggioranza bisogna tener conto del primo partito d’Italia. Bisogna in qualche modo coinvolgere il Partito democratico, non necessariamente facendo l’assessore, ma contando, contando qualcosa”. E la Natalicchio ha spiegato di averlo fatto. E più volte anche. Già nel luglio dello scorso anno quando con un rimpasto di governo fu proposto un assessorato, poi rifiutato dagli stessi democratici. E ancora acconsentendo alla richiesta di “verifica programmatica su tutta l’attività di governo, in corso da oltre un mese. Ogni sforzo di elaborazione partecipata delle politiche da parte mia e degli assessori della giunta è stato profuso – ha scritto nella sua lettera di dimissioni la Natalicchio -. In queste sedute di verifica la gran parte del gruppo consiliare del PD, che oggi denuncia assenza di condivisione, ha fatto mancare sistematicamente la sua presenza. Sino al paventato voto contrario in bilancio”. Quest’ultimo, la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Nella seduta del Consiglio convocata per discutere dei tributi locali, l’opposizione ha abbandonato l’aula e quattro dei consiglieri del Pd risultavano assenti. I numeri per portare a casa la manovra economica li avrebbe anche avuti, ma per la Natalicchio “i banchi sono stati desertificati dagli Schettino che hanno abbandonato la nave”. Il rapporto di fiducia, insomma, è decaduto e con esso la maggioranza.

Il sindaco ha spento il telefono, scegliendo di trascorrere qualche giorno lontana da Molfetta. I suoi fedelissimi assicurano che nulla era inatteso. Già in gennaio c’era stato un tentativo di raggiungere le 13 firme per formalizzare dal notaio la richiesta di dimissioni del sindaco ma le adesioni si erano fermate a 12. La previsione era di una crisi più prossima al rinnovo del governo nazionale, tempo per formalizzare la nascita a Molfetta di un Partito della Nazione che avrebbe soppiantato la prima cittadina. Restano 18 giorni per ritirare le dimissioni. Si attende di capire cosa accadrà nel Pd, spaccato. “Non vogliamo mandare a casa un sindaco, soprattutto di centrosinistra e in un momento come questo – chiude Marco Lacarra – ma se le dimissioni sono un modo per convincere a comportarsi diversamente, non va bene. Ma io sino al 15 maggio non posso far nulla, come disse Dante “sono fra color che son sospesi”.