Infine è arrivato il tanto atteso decreto che offre certezza nei rimborsi a una parte dei risparmiatori truffati. Ma, nonostante l’ottimismo del premier Matteo Renzi, il provvedimento non risolve “definitivamente tutti i problemi del mondo bancario”. Per fermare il declino delle banche italiane è necessario intervenire su fattori più impegnativi e “scomodi” di quelli contenuti nella legge: la governance delle imprese, le loro capacità manageriali e, non ultimo i comportamenti delle autorità di regolamentazione e vigilanza, a partire dalla Banca d’Italia. Perché le difficoltà delle banche italiane nascono dal modo in cui sono state gestite e non solo dalla crisi dei mercati iniziata nel 2008.
Appare ormai poco credibile la narrazione della solidità rassicurante ed opulenta del sistema del credito dove un tempo prosperava una miriade di piccole e medie banche locali. Sul declino del settore hanno pesato il ritardo con cui le autorità sono intervenute così come la stabilità di vertici potenti, intrecciati con le élite del paese. Una classe dirigente che ha favorito clan di dipendenti fedeli, consigli di amministrazione pletorici e talvolta in conflitto di interessi, riluttanza ad aggregazioni.
A Genova, Arezzo, a Vicenza, ma anche in istituti sani, i gruppi dirigenti sono stati in carica per decine d’anni, talvolta lo sono ancora oggi: erano lì prima dell’euro, spesso prima di internet e della creazione della Bce. Il processo di concentrazione guidato dalla moral suasion della Banca d’Italia, che pure ha portato benefici, non ha accompagnato la maggiore complessità dimensionale e di attività delle aziende con adeguati sistemi di governo e di trasparenza. Si sono aggiunti gli errori strategici, le contraddittorie acquisizioni di sportelli seguite da chiusure e dismissioni, le avventure in mercati marginali all’estero, gli affidamenti ai “soliti amici”. Il risultato è stato il grado crescente di sofferenze, arrivate a superare i 200 mld di euro (il 10% dei crediti totali).
Per questi motivi le banche italiane da tempo non sono più solide, al contrario di quanto hanno sostenuto per anni i policy maker: lo affermava lo stesso Mario Draghi all’Assemblea Abi del 2011; lo dice ad ogni piè sospinto l’attuale governatore Ignazio Visco. Lo sosteneva l’allora presidente Abi, Giuseppe Mussari, uno dei coinvolti nel disastro del Montepaschi, contestando in una lettera a Christine Lagarde i giudizi del Fondo Monetario Internazionale. Lo ripete, con fede ammirevole, il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan. Così, di rassicurazione in rassicurazione, abbiamo evitato interventi radicali come hanno fatto altri paesi. Ora dobbiamo fare i conti con il bail-in, la direttiva comunitaria che vieta gli aiuti di Stato al settore. Il mercato impietoso ha penalizzato le banche quotate facendo scendere il valore di borsa nei primi mesi del 2016 del 41% per 34 mld di euro. Peggiore è stata la situazione nelle non quotate dove la valutazione gonfiata del titolo ha nascosto perdite abissali. Un trend che continua da anni e adesso i soci delle banche disastrate capiscono amaramente la storia e pretendono dallo Stato l’indennizzo. Forse avrebbero potuto essere più attivi e controllare i pifferai che promettevano rendimenti mirabolanti.
Tuttavia non esiste alternativa: il Paese è costretto a salvare le banche. Margaret Tatcher ebbe un’intuizione strategica, spiace riconoscerlo, quando si disfò delle miniere e ridimensionò l’industria manifatturiera britannica per fare di Londra una delle piazze finanziarie più importanti del mondo. Sarà anche per questo che l’economia inglese rimane una delle più positive in Europa. L’istituzione-banca ha sempre accompagnato lo sviluppo di un paese e la sua sorte è più rilevante dell’interesse per il destino singolo dei clienti, dei dipendenti o degli stessi azionisti.
Chi metterà i capitali per rafforzare il patrimonio delle banche che debbono essere risanate? Il governo ha fatto una mossa giusta favorendo la nascita di Atlante, il fondo che ha raccolto 4,25 miliardi di euro, per sostenere gli aumenti di capitale richiesti dalla Bce e l’acquisto dei Npl (non performing loans, i crediti in sofferenza). Resta il problema delle risorse modeste per il suo successo (su cui gli osservatori internazionali si mostrano scettici), resta in particolare da valutare la convenienza di collocare in borsa aziende con problemi di patrimonio e di assestamento gestionale. Dopo l’aumento di capitale della Popolare di Vicenza disertato dagli investitori deve partire quello della Veneto Banca… Le nubi sono ben lungi dal diradarsi. Dubbi accompagnano la fusione tra il Banco Popolare e la Banca Popolare di Milano che hanno deciso un matrimonio di interesse più che d’amore. Senza dimenticare che rimane irrisolto il problema di salvare il Montepaschi.
Perciò non è finita con il decreto sul ristoro dei risparmiatori e sulle garanzie sui crediti. Sarebbe bene che il governo, le autorità preposte, e le stesse élite economiche del paese, facessero una profonda riflessione sulle omissioni o sull’indulgenza mostrate nel recente passato e sui meccanismi che non hanno funzionato, come ricorda anche Ferruccio de Bortoli in un editoriale sul Corriere della Sera dal titolo Perché le ipocrisie non salvano il credito. E’ chiaro che ripagare le perdite a risparmiatori che hanno perso soldi in un investimento è un episodio eccezionale e che il mercato del risparmio deve tornare normale.