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Claudio De Vincenti, l’uomo macchina del governo tra le telefonate Guidi-Gemelli, la centrale dei veleni e i tavoli di crisi

Il sottosegretario in prima fila per la poltrona di via Veneto. Di lui l'ex ministro diceva al compagno: "E' amico del clan, un pezzo di merda". Secondo gli investigatori che indagano Tirreno Power per disastro ambientale suggerì alla società che faceva capo ai De Benedetti "come aggirare le prescrizioni". Da Monti fino all'attuale premier, ha favorito gli accordi tra sindacati e aziende per evitare chiusure e delocalizzazioni

Ad accomunare tutti e tre sono un’antica tessera del Pci e una recente conversione sulla via del renzismo. Ma due dei candidati in pole per la poltrona di ministro dello Sviluppo economico – Teresa Bellanova, Claudio De Vincenti e Chicco Testa, anche se nelle ultime ore le quotazioni della prima sono scese ed è spuntato il nome della sottosegretaria all’Economia Paola De Micheli – sono uniti anche da un altro fil rouge. Hanno a cuore le sorti di Sorgenia, la società energetica che due anni fa la famiglia De Benedetti ha ceduto alle banche perché era zavorrata dai debiti. Enrico “Chicco” Testa poco più di un anno fa ne è diventato presidente. Il sottosegretario alla presidenza del Consiglio De Vincenti, quando era viceministro di Federica Guidi, se ne è occupato a modo suo: dalle carte dell’inchiesta sull‘inquinamento della centrale a carbone di Vado Ligure (in cui De Vincenti non risulta indagato) emerge come, secondo gli investigatori, si sia “adoperato per suggerire la strada a Tirreno Power per aggirare la prescrizione che impone la copertura del parco carbone”. Necessaria per ridurre la dispersione degli inquinanti nell’aria. Che cosa c’entra Sorgenia? Tirreno Power, proprietaria della centrale ritenuta causa di un disastro ambientale per il quale sono indagate 86 persone, all’epoca dei fatti era una sua controllata.

Più di recente il 67enne macroeconomista romano, docente alla Sapienza, con all’attivo diverse pubblicazioni su Marx e collaboratore de lavoce.infoè tornato agli onori delle cronache come protagonista di uno dei tanti scambi di veleni tra la Guidi e il compagno Gianluca Gemelli. “Io non mando a puttane come ho già rischiato di fare un pezzo della mia roba per fare un favore a tutta quella combriccola lì. De Vincenti è un pezzo di merda, lo tratto da pezzo di merda”, si sfogava l’ex ministro, intercettata dagli agenti della Squadra mobile di Potenza nell’ambito dell’inchiesta sul centro oli di Viggiano dell’Eni e il giacimento Tempa Rossa di Total. La ex numero uno di Confindustria era inviperita perché convinta che il suo vice – che neanche in questo caso è comunque tra gli indagati – fosse “amico del clan” di Gemelli (“dei figli di puttana”, il giudizio di Guidi) e “usasse” le sue pesanti deleghe, tra cui quelle all’energia e alle crisi aziendali, per “fare sempre i fatti suoi”. “Se può mi danneggia“, si lamentava. “E poi Claudio Descalzi (amministratore delegato di Eni, ndr) che mi dice che venerdì mattina è al ministero per parlare con De Vincenti che lo ha convocato per parlare di cose di cui Claudio De Vincenti non dovrebbe neanche parlare…”. Altra telefonata, altra intercettazione: “Quelle pedine, cioè De Vincenti da me, non è un caso, non è per farmi un favore, perché De Vincenti è bravo, capito? Come non hanno messo lì Piercarlo per fare un favore a Matteo, perché Piercarlo è bravo”. E ancora: “Sempre quel quartierino lì. Oltre al fatto che si conoscono perché andavano a scalare insieme da vent’anni, lui De Vincenti e Padoan…”.

Se la passione per la fatica delle scalate in montagna lo accomuna al titolare del Tesoro, quella del ciclismo De Vincenti ce l’ha in comune con Romano Prodi. Ed è stato durante il governo del Professore che ha iniziato a collaborare con il ministero dell’Economia, retto allora da Vincenzo Visco. Poi è rimasto consulente economico dei governi di Massimo D’Alema e Giuliano Amato. Il legame con Visco passa anche per la collaborazione con Nens, la rivista fondata da Visco e Pierluigi Bersani. Per il quale De Vincenti, che dal 1972 ha avuto in tasca in sequenza le tessere del Pci, del Pds, dei Ds e del Pd, ha votato alle primarie del 2012. Quelle che Renzi ha perso.

Il pubblico lo ha conosciuto con Mario Monti, il primo a nominarlo sottosegretario (sempre allo Sviluppo) nel suo esecutivo di tecnici “imparziali”. Poi lo hanno confermato nel ruolo Enrico Letta e, nel febbraio 2014, il premier fiorentino. Renzi – dopo che ha dovuto sostituire Maurizio Lupi con Graziano Delrio alle Infrastrutture – se lo è portato a Palazzo Chigi, dove è diventato il nuovo “uomo macchina” del governo. Nonostante nel governo non ci sia nessuno meno “renziano” di lui.

Negli ultimi 4 anni e mezzo è stato soprattutto l’uomo “dei tavoli della crisi”. Colui che ha messo allo stesso tavolo sindacati e aziende per evitare chiusure, delocalizzazioni, mobilità, esuberi. Le acciaierie Ast di Terni, l’Alcoa in Sardegna, l’Irisbus in Irpinia, la siderurgia della Lucchini a Piombino. La stessa fatica, estenuante, del ciclismo e delle scalate. Per la stanchezza e per la commozione, quando portò al successo la vertenza sull’Irisbus non riuscì a non commuoversi durante l’annuncio finale di fronte a delegazioni di lavoratori e giornalisti (e poche telecamere). C’è chi racconta che ai tempi delle liberalizzazioni del governo Monti fu lui a chiedere di transennare gli ingressi del Senato per resistere all’assalto dei lobbisti.