Secondo una ricerca diffusa dal Daily Telegraph, in un quinto dei casi le famiglie non vengono consultate. Inoltre sette pazienti su dieci vorrebbero poter morire a casa. Ma statisticamente questo succede solo nel 23% dei casi
Li chiamano in ambito medico britannico “Dnr”, Do not resuscitate orders, gli ordini imposti dai medici agli operatori sanitari e che stabiliscono come un paziente non debba essere rianimato in punto di morte perché la situazione è troppo compromessa. Una pratica messa in atto ovunque nel mondo, chiaramente, ma che ora nel Regno Unito è al centro delle polemiche dopo che una ricerca ha rivelato come in un quinto dei casi le famiglie dei pazienti non vengano consultate sull’opportunità o meno di ‘staccare la spina’ ai propri cari. Procedure quindi al limite fra l’evitabile e l’inevitabile e che ora il Royal College of Physicians, importante associazione medica britannica, vorrebbe porre al centro dell’attenzione per arrivare a una migliore regolamentazione e a norme più certe e in un certo modo più ‘garantiste’.
Il caso, portato alla ribalta dal Daily Telegraph, ha messo in luce come almeno 40mila di queste decisioni – su circa 200mila morti di questo tipo ogni anno – non siano ‘concordate’ o almeno discusse con i parenti dei pazienti sul punto di passare all’aldilà. Nel Regno Unito, del resto, è ancora fresco lo scandalo di due anni fa, quando dopo la sollevazione popolare si interruppe la pratica di fermare la nutrizione e l’idratazione dei malati sul punto di morte, con il protocollo noto con il nome di “Liverpool Care Pathway”. E ora il professor Sam Ahmedzai, che ha condotto la ricerca rilanciata dal quotidiano inglese, ha dichiarato senza mezzi termini: “Quando si prende una decisione di questo tipo, non parlarne con il paziente, se è cosciente e abile, o con la sua famiglia, è assolutamente imperdonabile. Se un dottore fosse in punto di morte – ha continuato – si aspetterebbe esattamente questo. Noi dobbiamo mostrare lo stesso livello di rispetto nei confronti dei nostri pazienti”.
Che la gestione del cosiddetto “fine vita” sia una questione delicata e complessa è noto e acclarato: basti pensare a tutte le discussioni in atto nel mondo occidentale sull’eutanasia, sulla ‘dolce morte’ o sul trattamento dei pazienti che versano in situazioni irrecuperabili. Ma in tempi di tagli alla spesa pubblica e di una sanità britannica che viene percepita come sempre più debole e sempre meno efficiente, ogni scandalo che sfiora la salute dei cittadini del Regno Unito viene preso con molta serietà da parte della stampa e dell’opinione pubblica. Soprattutto perché il problema ora riguarda anche la mancata comunicazione con i pazienti in punto di morte, che troppo spesso non conoscono nemmeno le loro reali condizioni di salute: “Molte persone non vengono neanche informate quando si presentano indicazioni biologiche sul loro essere prossimi alla fine”, ha aggiunto il professor Ahmedzai parlando con il Daily Telegraph. Al punto che nel 16% dei casi, ha rivelato sempre lo studio, non esistono nemmeno registrazioni o trascrizioni dei dialoghi avuti con i pazienti, che i regolamenti consigliano – e in certi casi prescrivono – per le procedure del fine vita.
Ora, dopo l’inchiesta del giornale inglese, anche le associazioni infermieristiche britanniche hanno preso posizione, sottolineando come certe decisioni coinvolgano chiaramente anche il personale sanitario. Rimane il fatto, sottolinea la stampa britannica, che in ambito medico, un po’ in tutto il mondo, ancora non sia stato messo a punto e rodato un sistema sul fine vita che metta veramente d’accordo tutti, sempre che sia possibile stabilirlo e svilupparlo anche in pratica, oltre che in linea teorica.
E forse la soluzione sta in quanto detto al Daily Telegraph da Amanda Cheesley, responsabile per le procedure del fine vita per il Royal College of Nursing, una delle associazioni infermieristiche più importanti del Regno Unito: “Il fine vita ormai è diventato un lavoro come un altro, un compito da portare a termine che passa anche per compilare dei moduli e stilare un piano per la cura molto accurato. Tutto questo è molto importante ma noi in quelle situazioni dobbiamo anche usare il nostro buon senso e i nostri istinti molto più di quanto debbano fare tante altre persone”. Un lavoro, insomma, a cavallo della sottile linea fra la vita e la morte. Con un altro dato emerso dall’indagine che fa riflettere: sette pazienti su dieci (ed è il risultato di un sondaggio britannico) vorrebbero poter morire nelle proprie case, circondati dai propri cari. Statisticamente, questo succede solo nel 23% dei casi.