Il patron di Esselunga è stato condannato a sei mesi per diffamazione. Al centro della vicenda, un servizio giornalistico di Libero: secondo il giudice, l'imprenditore era a conoscenza del suo "contenuto lesivo", avendo egli stesso preso visione del materiale a "contenuto illecito" e quindi con la "consapevolezza di aggredire la reputazione altrui"
Il patron della catena Esselunga Bernardo Caprotti “aveva voluto” la pubblicazione di articoli diffamanti nei confronti di Coop Lombardia. E’ quanto scrive il giudice nelle motivazioni della sentenza del processo con rito abbreviato nel quale l’imprenditore è stato condannato, lo scorso marzo, a sei mesi (pena sospesa) per diffamazione dal gup di Milano Chiara Valori. Al centro della vicenda, un servizio giornalistico con il quale, nel 2010, l’autore degli articoli Gianluigi Nuzzi e il direttore di Libero Maurizio Belpietro avevano svelato l’esistenza di presunte intercettazioni illecite ai danni dei dipendenti (datate 2004) di un punto vendita di Coop Lombardia.
Come spiega la sentenza, Caprotti era a conoscenza del “contenuto lesivo” dell’articolo, avendo egli stesso preso visione del materiale a “contenuto illecito” e quindi con la “consapevolezza di aggredire la reputazione altrui”. Caprotti, scrive il gup, nel 2007 aveva pubblicato il libro “Falce e martello” nel quale prendeva apertamente posizione contro le Coop, “libro cui il settimanale Panorama (allora diretto da Belpietro, ndr) aveva dato ampio risalto“, e per questo motivo il patron di Esselunga sarebbe stato “particolarmente sensibile” alle vicende delle cooperative rosse.
Il magistrato, però, ha assolto l’imprenditore dall’accusa di ricettazione assieme ai due giornalisti, condannati invece per calunnia a 10 mesi e 20 giorni. Secondo il pm Gaetano Ruta, Caprotti ha avuto un “vantaggio commerciale“, gettando “discredito” sulle Coop. Un profitto che, però, secondo il gup, in realtà non è esistito dato che Esselunga non ha considerato Coop Lombardia un concorrente “temibile” alla luce dei dati di vendita. E per questo motivo per il giudice viene a mancare il fine del profitto.