di Vera Cuzzocrea*
I media e il sentire comune sono allarmati nello scoprire quanto sta emergendo dalle indagini sui presunti abusi sessuali di Parco Verde. Tutti restiamo sconcertati nel leggere che solo oggi, grazie alla voce di altri bambini sentiti dalla procura come presunti testimoni dei fatti, e forse anch’essi vittime delle stesse attenzioni, starebbe emergendo la verità su quanto avvenuto. E mentre tutto ciò avviene, dilagano le risposte-sentenze su come intervenire per punire-trattare gli autori e i complici di queste violenze e aumenta l’indignazione per il clima di omertà che avrebbe impedito l’emersione dei fatti. Ebbene, non sta a noi ora entrare nel merito delle indagini, né cavalcare l’onda dei vissuti di rabbia e sconcerto che certi fatti purtroppo evocano a noi tutti, fornendo pseudosoluzioni o valutazioni pseudoscientifiche distanti dalla conoscenza approfondita del caso, né sarebbe questa la sede idonea per chiarire e comprendere un fenomeno così complesso come quello della pedofilia.
La nostra riflessione si muove sul reticolo di dinamiche psicologiche, ma anche culturali e sociali, che ancor prima della morte di questi bambini hanno reso possibile che quegli stessi venissero esposti a delle situazioni di pericolo. Dov’erano questi adulti prima? Dov’erano le famiglie quando quei bambini e quelle bambine giocavano, dovevano andare a scuola, vivere nel rispetto dei loro diritti di accudimento, gioco, protezione, spensieratezza? Il clima di omertà che si respira oggi è forse l’esito di un ben più profondo abuso da parte di tutti quegli adulti, al di là della violenza sessuale. La microsocietà, disimpegnata moralmente, in cui questi bambini e bambine crescevano, ne imparavano le regole e ne subivano le scelte, era la stessa microsocietà che oggi non ha aiutato gli investigatori a comprendere come stiano realmente le cose. Uno scenario fatto di marginalità, povertà culturale, trascuratezza in cui sfumano i confini stessi tra bambino e adulto, normalità e devianza. Quali segnali d’allarme di quel disagio sociale e psicologico non abbiamo saputo cogliere? Quali risorse e opportunità di benessere non siamo riusciti a rinforzare?
E se le indagini e gli esiti processuali – magari per l’adozione di erronee modalità nell’assunzione della testimonianza dei piccoli testimoni o per altri piccoli e grandi passaggi procedurali che un avvocato o un consulente competente potrebbe mettere in evidenza smantellando il quadro accusatorio – se tutto ciò portasse a non dimostrare che le violenze siano avvenute, vorrebbe forse dire questo che quei bambini non sono stati “abusati”? In questo caso e in generale, cosa verrebbe “restituito” in termini di senso e di risposte a questi bambini, a quelli che non ci sono più e a quelli che sono sopravvissuti e attualmente allontanati dalle famiglie?
Ognuno di noi, psicologi, insegnanti, magistrati, operatori e politici dovrebbe evitare di impegnarsi solo quando questi casi vengono alla luce e destano allarme sociale. Le nostre responsabilità, differenti per singoli mandati, ruoli e competenze, impongono una tensione che va oltre questo caso, che lo attraversano per comprenderne le traiettorie di senso più profonde e trovare le strategie più efficaci per ridurre il rischio che tutto ciò si ripeta. Che si costruiscano delle sacche di collettività così coese e complici nel disimpegno verso l’infanzia, al di là della pedofilia che può non solo insediarsi – così come in territori caratterizzati dal benessere, essendo un fenomeno trasversale a diverse categorie e contesti socio-culturali – ma anche e soprattutto trovarne addirittura rifugio, protezione.
L’alleanza psicologica che sta emergendo in quei bambini che possono ancora raccontare quello spaccato di realtà che hanno vissuto dovrebbe essere la nostra. Di ciascuno. Poiché, se consideriamo che con il concetto di “responsabilità” si intende la capacità di una persona di rispondere di un’azione, ognuno è chiamato ad impegnarsi per rispondere di questi abusi.
*Psicologa giuridica e psicoterapeuta