Oggi ricomincia il Giro d’Italia: parte dall’Olanda, patria delle due ruote, dove vige la civiltà del pedale, non la tirannia del volante. E lì ci rimane sino a domenica. Riprenderà le antiche strade martedì, dalla Calabria. Alla Grande Partenza assisterà pure re Guglielmo Alessandro, gran patito della bicicletta, come del resto, tutti gli olandesi. Che hanno pagato almeno 3,5 milioni di euro per le prime tre tappe tra dighe e mulini a vento. In Italia, ormai, cifre così per una Grande Partenza sono chimera. E tuttavia, l’edizione numero 99 del Giro propone memoria, non solo competizione tra Vincenzo Nibali e gli stranieri: cade infatti il settantesimo anniversario di un Giro epocale. Settant’anni sono un crinale decisivo. Fanno Storia. E inducono a confronti impietosi.
Il Giro del 1946 fu il più importante, per la sua portata emblematica e simbolica: il primo dopo la catastrofe della Seconda guerra mondiale, dopo il fascismo, dopo la guerra civile. Lo chiamarono il Giro della Rinascita (per usare il lessico della sinistra di allora). Ma anche il Giro della Ricostruzione, secondo la vulgata democristiana. C’erano già Peppone e don Camillo a pestare sulla pedaliera. Comunque, per la gente fu soprattutto il Giro della Speranza, della voglia di ricominciare. La corsa attraversava in 17 tappe e 3mila chilometri un’Italia martoriata, “una sorta di giostra irreale fra le macerie”, scrisse Orio Vergani, “e fra i problemi di un Paese che stentava a rimettersi in piedi”. Però, il Giro riuscì nel miracolo di andare oltre i cumuli delle rovine materiali e spirituali. Dimostrò che volendo si poteva voltar pagina, riappropriarsi di sogni, passioni e stramberie, perché, sostenne Dino Buzzati, il Giro era “un caposaldo del romanticismo assediato dalle squallide forze del progresso”. Le sofferenze della vita quotidiana si intrecciavano nelle vicende e nelle fiere rivalità della corsa. La tenacia di Bartali, che vinse quel Giro, e la classe di Coppi, che fu secondo, idealizzavano la tenacia collettiva.
Oggi, l’Italia del Giro d’Italia è un’Italia della Distruzione. Della Delusione. Delle sconfitte. Del dissesto. Morale. Politico. Economico. È una corsa che penetra nell’angoscia di chi non vede futuro. Si va in fuga. I corridori per passare primi sotto lo striscione. I giovani, per trovare lavoro, e dignità. Al mattino, ai ritrovi di partenza, ci si piega agli inevitabili e vacui riti delle autorità: i loro pistolotti sanno di aria fritta e di promesse spesso irrealizzabili. Aspettiamoci un tripudio di comparsate, siamo in tempi di elezioni. Nel 1946, di soldi ne giravano davvero pochi. I campioni si facevano pagare persino con forniture di mobili o di attrezzi per la campagna o per le officine che poi rivendevano: il reddito nazionale per abitante era di 60.711 lire, i nostri attuali 1.500 euro. Una bici nuova costava un terzo dello stipendio medio annuo ed era il mezzo più economico e diffuso. Pochissime le auto in circolazione. Sui camion, dietro, ondeggiavano cartelli con su scritto “vietato farsi trainare”.
Oggi la bicicletta è tornata di moda: ti pagano se vai al lavoro pedalando e lasci l’auto in garage. Il ciclismo è sport tecnologicamente avanzato. Le bici utilizzano materiali sofisticati. Il computer regola le tattiche di gara. La medicina governa diete e preparazioni, per salvaguardare la salute ed ottimizzare le prestazioni. In agguato c’è la farmacia… i campioni sono ben pagati, la tentazione di doparsi è costante. I patron delle squadre pretendono risultati presenze in tv. Organizzare un Giro impone budget sempre più esosi. Il Giro del 1946 si fece con grandi sacrifici. Era stato preceduto da eventi straordinari: il concerto di Arturo Toscanini, l’11 maggio, in un teatro della Scala ricostruito a tempi di record (e un’acustica meravigliosa). La Fiera Campionaria di Milano aveva riaperto i battenti. Il 2 giugno gli italiani avevano votato la Repubblica. Il 13, re Umberto II era andato in esilio. La fatica dei corridori era come la fatica di tutti. E pure l’ultimo ebbe una sorta di gratificazione: la maglia nera. Sui muri accanto a Viva Coppi qualcuno aggiungeva Vota Fronte Democratico popolare, Viva Bartali valeva Vota Dc. La maglia nera era solo Malabrocca. L’ultimo. Cioè il primo a conquistarla.
Da Il Fatto Quotidiano del 6 maggio 2016