Liberi di pronunciare il fatidico ‘sì’ in dialetto. Dal Piemonte alla Sicilia. Il matrimonio in vernacolo è un pallino della Lega Nord che anche in questa legislatura ha portato al vaglio del Parlamento la richiesta di poter celebrare le nozze anche nella ‘lingua locale’. La proposta di legge porta la firma del senatore ‘sudista’ (è nato a Montoro Inferiore, in provincia di Avellino) della Lega, Nunziante Consiglio, ma la battaglia del Carroccio inizia già nel 2009 quando l’assessore all’Ambiente di Como Diego Peverelli accoglie la richiesta di una coppia di comaschi di unirsi con rito civile celebrandolo anche  in dialetto: “E adess v’el disi bèl ciaàr: da quest mumènt chì sii marì e mijèè (e adesso ve lo dico chiaro e tondo, da questo momento siete marito e moglie)”. E’ l’inedita formula che risuona a Palazzo Cernezzi, dopo lo scambio delle fedi. In quello stesso anno arriva la prima proposta di legge targata Lega per il matrimonio in ‘lingua locale’, firmata dal deputato Pierguido Vanalli.

DOPPIA FORMULA Due anni dopo stessa scena ma diversa location e accento: a Bologna gli sposi chiedono ed ottengono che il rito civile, oltre all’italiano obbligatorio, venga celebrato anche in vernacolo bolognese. Così: “Tótt e dû i spûs i an al dvair ed dères da fèr pr i bisóggn dla famajja (entrambi i coniugi sono tenuti a contribuire ai bisogni della famiglia)”. E ancora dalla Lombardia all’Emilia, giù lungo lo stivale fino alla Sardegna, dove nel 2013 la giunta comunale di Cagliari vara una delibera per la celebrazione del matrimonio con la doppia formula, in italiano e in ‘limba’, in sardo. “Proprio perché momento importantissimo e indimenticabile, il matrimonio porta con sé, anche nella forma del rito civile – argomenta Consiglio – una forte componente legata alla tradizione. E con la riscoperta sempre più radicata della cultura locale, aumentano – aggiunge – quanti vorrebbero vivere una cerimonia così importante parlando la lingua della propria terra”.

LETTO E SOTTOSCRITTO L’obiettivo della Lega è dunque quello di estendere a tutti i comuni il modello Friuli, dove, ricorda Consiglio, la formula matrimoniale viene letta in friulano, ma verbalizzata in italiano; in chiusura dell’atto, l’ufficiale dello stato civile riporta questa frase: “Il presente atto viene letto in lingua friulana per espressa decisione delle parti agli intervenuti che dichiarano di aver compreso ciò che è stato verbalizzato in lingua italiana ed insieme a me lo sottoscrivono”. Un ulteriore passo avanti rispetto al dettato costituzionale, che già tutela le minoranze linguistiche, alla legge del 1999 che in parte ha anticipato le norme per la tutela delle lingue minoritarie contenute nella ‘Carta europea delle lingue regionali’, ed alla stessa convenzione Ue sottoscritta dal nostro Paese ma non ancora ratificata dal Parlamento.

CARTA PARLA Il via libera definitivo alla Carta potrebbe finalmente arrivare in questa legislatura, dopo diversi tentativi andati a vuoto. A beneficiarne sarebbero lingue di antica tradizione e ancora in uso in varie aree della penisola, da nord a sud: l’occitano in Piemonte e in Calabria (a Guardia Piemontese), il catalano e il sardo in Sardegna, il ladino, il mocheno e il cimbro, oltre al tedesco, in Trentino Alto Adige, il franco-provenzale in Valle d’Aosta e in alcune zone della Puglia, lo sloveno e il friulano in Friuli-Venezia Giulia, il croato in Molise, l’albanese in Sicilia, il greco in alcune zone della Puglia e della Calabria. L’elenco potrebbe allungarsi, visto che In Parlamento c’è chi vorrebbe inserire tra le lingue protette anche quelle di Sinti e Rom. Ma la Lega ha già annunciato le barricate. Sì al matrimonio in bergamasco o in pugliese, mai in Romanì.

 

 

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