Il racconto dall'isola della Grecia che fino a marzo era la porta dei profughi verso l'Europa. Ora l'accordo Europa-Turchia ha fatto crollare il numero degli arrivi, ma ha anche peggiorato le condizioni di chi viene trattenuto nei centri. L'allarme di Unhcr e Save the children: peggiora la situazione igienica e aumentano i casi di malattie e i rischi per i bambini. "Siamo saltati dalla guerra alla prigione"
Dall’isola di Lesbo
I giubbetti di salvataggio sono ancora appesi al muro, la barchetta a motore pronta a salpare. Di migranti in mare non se ne vedono da un po’ a Skala Sikamias, villaggio sulla punta nord dell’isola di Lesbo, da cui si vede sfumato il profilo della Turchia. Ma l’accampamento per il primo soccorso allestito dai volontari, ormai un anno fa, rimane attivo 24 ore su 24. “Aspettiamo di vedere cosa succede nei prossimi mesi”, dice Sara Santoro, 29 anni, volontaria. “L’ultimo gommone – continua – è arrivato dieci giorni fa, potrebbero arrivarne altri. E noi aspettiamo”. Era questo, prima dell’accordo tra l’Ue e la Turchia, una delle porte dei migranti per l’Europa. Ogni giorno arrivavano dalle 30 alle 60 barche stracolme di migranti fradici, stremati, mezzi morti. Ogni giorno si sentivano le grida di disperazione, le richieste di aiuto, i pianti dei neonati sopravvissuti al viaggio chissà come. Adesso solo lo strillo dei gabbiani interrompe il mormorio delle onde ancora macchiate di sangue. “A volte capitava di uscire anche venti volte al giorno per operazioni di salvataggio – ricorda Sara – Magari il gommone si bucava e finivano la benzina. Il trafficante spesso non era nemmeno a bordo e li lasciavano navigare a vuoto in mare”.
Ma non solo Skala Sikamias. I migranti sbarcavano un po’ ovunque a Lesbo. Centinaia di sbarchi ogni giorno, migliaia di persone. Arrivavano, si riprendevano dal viaggio e poi via di nuovo verso la terraferma come uccelli migratori alla ricerca della primavera. Proprio come negli anni Venti quando oltre un milione di cristiani in fuga dal genocidio in Turchia si rifugiò sull’isola prima di arrivare in Grecia. Deve avercelo scritto nel destino, Lesbo, di essere l’isola di rifugiati.
Nel 2015, secondo i dati forniti dall’Unhcr, sono arrivate in Europa attraverso la rotta balcanica circa un milione di persone, di cui la metà transitate da Lesbo. Solo dall’inizio del 2016 ne sono passate circa 90mila dall’isola, quasi tutte prima del 20 marzo, giorno dell’entrata in vigore dell’accordo Ue-Turchia. Da allora il mar Egeo è diventato un altro muro innalzato in Europa per fermare le migrazioni. La guardia costiera e gli agenti di Frontex sorvegliano costantemente le acque turche e respingono le imbarcazioni in partenza. Qualcuna riesce a passare lo stesso, di notte, in una rotta che non è mai la stessa. “A febbraio – spiega a IlFattoQuotidiano.it Boris Cheshirkov, portavoce di Unhcr a Lesbo – arrivavano nell’isola dalle 500 alle 2mila persone al giorno; a ottobre anche 5mila in una sola giornata. L’isola era piena di migranti. Adesso si respira tutta un’altra aria. Arriva un’imbarcazione ogni cinque o sei giorni. Quello che non funziona è il sistema di detenzione in cui sono costretti a vivere i migranti”.
Lesbo, da terra di speranza a terra di prigionia. Dal 20 marzo i migranti richiedenti asilo sono stati trasferiti nel campo profughi di Kara Tepe, a Mitelene. In attesa di sapere se la domanda verrà accettata, possono muoversi solo per l’isola. Tutti gli altri invece sono stati rinchiusi nel hotspot di Moira, sulle colline della città, da cui non possono uscire senza autorizzazione. E quella si ottiene non prima di un mese (e in ogni caso serve solo per circolare nei dintorni). È un vero e proprio centro di detenzione, circondato da un muro alto cinque metri e filo spinato, da cui anche le ong se ne sono andate per “non sentirsi complici”, come aveva dichiarato al momento della firma dell’accordo Medici senza frontiere.
Nei container del campo sono ammassate adesso 4mila persone. Ne potrebbero contenere giusto la metà. I minorenni sono circa mille, di cui duecento non accompagnati. “Le condizioni igieniche stanno deteriorando – fa sapere al Fatto.it Sacha Myers, responsabile della comunicazione per Save the children Grecia – Stanno aumentando i casi di bronchiti e di infezioni per complicazioni della febbre. Siamo anche preoccupati per la sicurezza dei bambini, dal momento che la tensione aumenta di giorno in giorno e si stanno verificando casi di violenza”.
Poco dopo la visita del Papa, un gruppo di minorenni ha incendiato cassonetti, letti, spaccato a calci e pugni le catene. Volevano solo essere liberi, nient’altro. E sopra il filo spinato che scorre sul muro si vedono ancora i segni della loro ricerca di libertà: le scarpe e i vestiti impigliati, le coperte abbandonate sulla doppia recinzione. Una fuga mai riuscita, perché da lì non si scappa.
Save the Children ha chiesto al governo greco che almeno i bambini non accompagnati vengano tolti da quell’inferno, ma per il momento è solo una speranza. E in ogni caso anche fuori dovrebbero fare i conti con gli spazi. Che non ci sono. Con la chiusura della frontiera macedone sono rimasti bloccati in Grecia infatti circa 2mila minori che hanno viaggiato da soli o perso le famiglie lungo la strada. I posti di accoglienza disponibili in tutto il Paese però sono solo 477. “Questi rifugi – spiega la ong – sono stati pieni per settimane. I bimbi sono rimasti a lungo nei centri di detenzione o nelle celle di polizia e questo mette i bambini vulnerabili e traumatizzati a rischio di abuso, sfruttamento da parte di trafficanti di esseri umani, malattie e disagio psicologico”.
Fuori dal campo di Moira due giovani afghani si allontanano sventolando un foglio. “Freedom, freedom”, gridano. Sembrano trentenni, ma hanno solo sedici e vent’anni. Si chiamano Shikhali e Rebaz. Uno di loro zoppica: ha una protesi alla gamba destra. “Me l’hanno fatta saltare in aria i talebani l’anno scorso”, racconta Shikhali. È il loro primo giorno di libertà dopo quaranta giorni di detenzione. “Cosa faremo oggi? – dicono – Torneremo il più tardi possibile dentro quel carcere”. Sono in attesa di capire che ne sarà di loro, come tutti gli altri. Se verranno rimpatriati o chissà. “Se mi rimpatriano, mi taglio anche l’altra gamba”, dice Shikhali. “Non abbiamo fatto tutto questo viaggio per essere rispediti indietro come pacchi postali”, aggiunge Rebaz.
Dal primo aprile ad oggi sono state rimpatriate circa 400 persone dalle isole greche nell’Egeo, di cui circa la metà da Lesbo. Alcune di loro erano siriane. Eppure le ricollocazioni previste dall’accordo (per ogni siriano rimpatriato in Turchia, un siriano deve essere ricollocato dal Paese in un paese membro Ue) vanno parecchio a rilento. “Il tema delle ricollocazioni è un altro su cui l’Europa sta facendo ben poco, lasciando di fatto la Grecia abbandonata a se stessa – spiega Cheshirkov – Dal settembre del 2015 a oggi hanno lasciato la Grecia solo 600 persone delle 66mila e 400 previste dai vecchi accordi. Dalla Turchia non abbiamo un numero preciso di quante persone siano state ricollocate. Ma sono sicuramente poche”.
E nel frattempo i migranti rimangono lì, bloccati sull’isola, dentro un labirinto di solitudine e tristezza. “Siamo saltati dalla guerra alla prigione”, racconta Fwad, curdo dell’Iraq, seduto su un muretto in riva al mare poco, distante dal campo profughi Kara Tepe. Beve una birra e fissa il mare. Le onde coprono e scoprono vecchi giubbotti di salvataggio incastrati tra gli scogli. “Sono venuto da là”, continua e indica la Turchia, che adesso si vede nitida. “Guarda cosa mi ha fatto il Daesh”. E mostra la sua cicatrice spessa un dito che gli attraversa la testa da parte a parte. “Mi è piovuta una bomba addosso”, continua. Fa una pausa e riprende. “Sono scappato dal Daesh, ho attraversato la Turchia, sono riuscito ad attraversare il mare. E ora sono in prigione”.