Quando si commentano i documentari di Michael Moore si è sempre preda della “sindrome Ken Loach”. Criticare persone buone e giuste risulta umanamente sgradevole. Ed è proprio questo che vogliamo evitare in queste poche righe che accompagnano l’uscita limitatissima in Italia, grazie a Nexo Digital, di Where to invade the next (9-10-11 maggio 2016). Non siamo qui a mettere in discussione intenzioni, spirito, e coscienza critica di un cineasta che ha provato a fondere comicità e impegno politico da almeno un ventennio con un mezzo poco usato, come il documentario (o presunto tale), in una spazio/nazione zeppo di discutibilissime certezze morali da imporre universalmente. Il coraggio di Moore è fuori discussione. Come è fuori discussione l’obiettivo che il cineasta di Flint si pone dalla notte dei tempi: criticare il potere, inchiodarlo, metterlo alla gogna, mostrarne limiti, impacci, nefandezze. Solo che negli anni, documentario dopo documentario, spunto dopo spunto, dal macrotema statunitense delle armi a quello della sicurezza nazionale, da quello della sanità a quello della crisi del capitalismo, ecco arrivare Where to invade the next dove il “nemico” da sbeffeggiare si è come nebulizzato.
Di fondo, questo film sembra non esistere se non in un confronto artificiale, fittizio, sgangherato, tra Usa (segno meno) ed Europa (segno più). Un ragionamento a livello concettuale limitativo e grossolano, disfattista e superficiale, che mostra la corda nel tipico fare e disfare documentarista di Moore: il pregiudizio da confermare. Perché al nostro, complice la benevolenza progressista europea che ne ha accolto l’impeto da j’accuse ribelle a Cannes per la prima volta nel 2002 con Bowling a Columbine, si perdona sempre il vizietto di scrivere e girare un documentario come se documentario non fosse. Moore adora raggiungere il proprio scopo con il minimo dello sforzo. Scrive prima di girare l’effetto che vuole, e poi lo va a cercare finché qualcuno o qualcosa non lo provoca. Sostanzialmente il contrario di uno spirito documentarista purista, quello della sorpresa, della sospensione del ragionare di fronte all’eccezionalità inquadrata. E l’esempio, guarda caso, è proprio nel Moore che colpì il mondo intero nel 2002. Il regista che prova a tutti i costi a mettere in castagna Charlton Heston, leader della NRA, gli si infila in casa, lo intervista con l’inganno, ergo: sappiamo già e vogliamo inconsciamente che Moore abbia ragione, e l’intervista è come se non ci fosse.
Solo che Heston, senza accordo alcuno con produzione e sceneggiatori, si alza in piedi e congeda in silenzio Moore dopo l’ennesima domanda incalzante per stanarlo. E’ lì l’apice documentaristico del cineasta di Flint. E’ lì che si fa sorprendere da un gesto, da un particolare inquadrato, da qualcosa di inatteso che improvvisamente e senza prevederlo si vede. In Where to invade the next Moore compie invece un carpiato opposto e ardimentoso. Nel cercare conferma che il sistema sociale, culturale, alimentare, educativo statunitense fa schifo oppone esempi contrari all’ “europea” che gridano vendetta. Non li sveliamo tutti, andate a vederli. Citiamo solo quello italiano, il primo temporalmente, usato per mostrare come l’Italia sia il paese di Bengodi in termini di certezze contrattuali, ferie pagate, ore di riposo, solidarietà padronale col sottoposto. Sì, avete letto bene: l’Italia renziana in cui si distruggono con l’accetta welfare e tutele per chi sta peggio o si trova in difficoltà, scimmiottando proprio il modello americano.
Moore intervista una simpatica giovane coppia alto borghese che sembra uscita da un villaggio Alpitour. Loro sciorinano meraviglia dei loro incarichi professionali che consentono infiniti giorni di ludibrio ai tropici come se piovesse; e lui registra tutto come oro colato. Poi incontra il CEO, Claudio Domenicali, della Ducati e gli imprenditori marchigiani Lardini, produttori di capi d’abbigliamento per grandi firme. Ed è tutto un profluvio di amore e rispetto per la vita e la gioia dei dipendenti, un colare di sughi al pomodoro per il pranzo consumato a casa, e di successi sindacali da brindisi tintinnante. Roba da strabuzzare gli occhi e chiedere a Moore i danni morali.
Sorvolando poi sul capitolo Francia, quello della mensa della scuola normanna che propone il Camembert nel menù degli alunni mentre la nipote di Moore via Twitter gli mostra il rancio da marines delle scuole pubbliche americane, capiamo subito che Where to invade the next è l’apice, al contrario, di ciò che Moore ha sempre pensato fosse realmente la forma documentario: confermare i propri, magari giusti e lodevoli, pregiudizi. Del resto l’iperbole comica di una sovraimpressione esplicativa spiega che l’Italia è il paese di “Gesù (?), Don Corleone, e Super Mario (??)”. Ecco allora la sindrome Loach, quella che porta all’affetto per il povero Michael che per poco non muore di polmonite l’inverno scorso; del rispetto per l’uomo senza peli sulla lingua che fa campagna presidenziale pro Sanders o che s’incazza coi distributori Usa che hanno acquistato il suo film senza lavorarci come dio comanda. Noi a Moore vogliamo un bene dell’anima, però non si metta a dire sciocchezze e sparare sentenze a casaccio pure lui. Altrimenti l’asfittica e rigidissima dicotomia bene vs. male finisce per essere quella dei guitti antiberlusconiani che una volta finito in disgrazia il bersaglio massimo, si barcamenano in battute di repertorio che non funzionano più, mentre attorno crescono altri cento Berlusconi tutti ancora da spiegare e “documentare”.