La festa della mamma è passata e con essa tutto il carico di retorica sull’importanza del doppio ruolo rivestito dalle donne nel mondo del lavoro. Il problema è che la discriminazione di genere in Italia è ancora forte. Siamo un paese che nel 2015 registra una netta differenza tra il tasso di occupazione degli uomini (70,6%) e quello delle donne (50,6%): dato fortemente negativo (-14%) rispetto alla media Ue 28 (fonte Eurostat). In Italia il lavoro femminile viene solitamente remunerato – a parità di mansioni – meno di quello maschile: si tratta del Gender Pay Gap, cioè della differenza di stipendio tra uomini e donne, che ha effetti anche sul futuro trattamento pensionistico, poiché le donne, guadagnando meno, versano meno contributi e, quindi, avranno pensioni più basse. Come poi sarà capitato di verificare nell’esperienza quotidiana di ciascuno di noi, sono le donne a svolgere in prevalenza il lavoro part-time (il 34,9% contro appena l’8,6% degli uomini) e ad occuparsi dei carichi familiari, con ovvie conseguenze anche sulla carriera.
L’Italia ha cercato di affrontare la discriminazione di genere con tre diversi metodi, ciascuno da collocarsi in un ben preciso momento storico: -In una fase più risalente si è cercato di evitare che la donna fosse oggetto di sfruttamento, assicurando alla lavoratrice una garanzia economico-normativa minima;
–In una seconda fase si è cercato di promuovere una parità almeno formale, come appare chiaro dall’art. 37, 1° comma della Costituzione, con cui si riconosce che la donna debba essere retribuita, a parità di mansioni, come l’uomo;
-Nella terza stagione normativa, preso atto dell’inefficienza di una legislazione di protezione o volta ad affermare una parità in senso meramente formale, si è puntato sulla promozione di una uguaglianza sostanziale.
Questa terza fase (iniziata nel lontano 1977) partiva dalla premessa che le due fasi precedenti avevano per certi versi peggiorato la situazione, poiché la disciplina protettiva della lavoratrice aveva disincentivato le assunzioni di donne o la loro progressione in carriera, in quanto ritenute (a torto) oggetto di una tutela che rendeva la gestione del rapporto di lavoro più rigida rispetto a quello di un lavoratore maschio. Si è così deciso di avviare un processo di promozione delle pari opportunità, volto a combattere ogni forma di discriminazione, sia essa manifesta (ad esempio, si assumono solo uomini), che indiretta (ad esempio, si assumono solo persone con caratteristiche fisiche che sono tipicamente proprie degli uomini). Si è, poi, dato avvio alle c.d. azioni positive, cioè interventi volti a rimuovere gli ostacoli che di fatto impediscono la realizzazione delle pari opportunità tra uomo e donna, agendo in via preventiva e sul piano culturale.
Il fulcro di questo articolato sistema è dato dalla rete delle Consigliere di parità, nominate a livello nazionale, regionale e provinciale: ad esse è, infatti, rimesso, nel rispettivo ambito di competenza territoriale, la funzione di combattere gli atti discriminatori (diretti ed indiretti) e di promuove le azioni positive. Purtroppo, in questi ultimi periodi sembra di percepire un certo disinteresse governativo per queste importanti strutture. Dal 2013 la carica è diventata praticamente gratuita (strano caso, pressoché unico di vera spendig review): alle consigliere, che hanno un notevole carico di lavoro, è riservato il quasi offensivo compenso di 16 euro lordi al mese (se regionali) e di 12 euro lordi mese (se provinciali). Ciò nonostante nessuna delle consigliere in carica ha, però, mollato, accettando di svolgere il compito per spirito di servizio. Il governo, però, non pago di aver ottenuto un importante contributo da queste volontarie, sembra ora muoversi su altri piani per rendere il lavoro della consigliere più arduo.
Basti a tal proposito citare il grido di allarme di Tatiana Biagioni (una che ha fatto la storia del sistema delle consigliere di parità) sugli effetti negativi delle novità introdotte dal Jobs Act e le accorate dichiarazioni di Laura Moro (Consigliera regionale della Sardegna) sulle difficoltà di collaborazione tra la consigliera e gli uffici regionali. Due altri sintomi devono far riflettere:
1-la squadra di governo si dichiara rosa, ma non ha un Ministro delle Pari Opportunità (declassato a dipartimento della Presidenza del Consiglio);
2-molte delle nomine delle consigliere provinciali e/o regionali sono in fase di stallo, poiché dopo la scadenza non si è proceduto tempestivamente alla loro sostituzione, con chiari effetti negativi sull’effettività della loro azione.
Per fare un esempio, non hanno una consigliera in carica, ma in fase di prorogatio: Milano e Brescia dal 2014; stesso discorso vale per le regioni Piemonte, Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna. E’ evidente che chi è in regime di prorogatio vive in un limbo e non può organizzare l’attività futura, dovendosi limitare a gestire la quotidianità per rispetto di chi verrà nominato come successore. Certo che, se il dopo non arriva mai, si impedisce di fatto alle consigliere di operare e di programmare. E’ quindi ora che il governo esca allo scoperto e dichiari cosa vuole realmente fare.