Sembrerà paradossale ma sostengo che, anche chi era (è) per la riforma costituzionale in Parlamento e per il Sì al referendum confermativo in piazza, deve sperare nel No per neutralizzare una riforma così lacerante, riconoscendo di aver fatto un grosso errore. Gli insulti che volano tra gli opposti ‘fronti’ nel dibattito sulla ‘riforma’ della Costituzione sono la prova più inequivocabile dell’inopportunità della stessa. Maria Elena Boschi accusa alcuni tra i più autorevoli costituzionalisti italiani di voler votare come CasaPound, il fronte del No si accende, e anche da quel lato non mancano escandescenze. Il partigiano Silvano Sarti, storica figura dell’Anpi fiorentino, viene tirato per la giacchetta ed è costretto a smentire di essere stato reclutato dal Sì.

L’iter parlamentare già aveva dimostrato che la riforma non è condivisa: il referendum confermativo, previsto dall’ultimo comma dell’articolo 138 Cost., si sarebbe evitato se la riforma fosse stata approvata dai due terzi dei componenti delle due Camere. Così non è stato. Sul piano formale, nulla quaestio. Si aggiunga però che la riforma, fortemente voluta da Napolitano (un presidente dal ruolo esorbitante e al secondo, eccezionalissimo, mandato) e dunque da Renzi (il terzo Presidente del Consiglio che, seppur nel pieno rispetto del dettato costituzionale formale che attribuisce quel potere al Presidente della Repubblica, non è certo stato indicato dalle urne secondo ciò che con la Seconda Repubblica si era, a fatica, cercato di affermare, riducendo peraltro per via convenzionale le prerogative del Presidente della Repubblica stesso), ha ottenuto il consenso di un Parlamento gravemente squalificato dalla pronuncia di illegittimità costituzionale di una parte della legge elettorale ‘Porcellum’, mediante la quale era stato eletto.

Le riforme costituzionali richiedono ampio consenso. Tanto più in quanto, in Parlamento, hanno operato quelle quattro condizioni di cui ho appena detto: eccezionalità del ruolo e del mandato di Napolitano; investitura di Renzi; mancata adesione dei due terzi; illegittimità costituzionale della legge elettorale. Laddove ci sia una frattura così profonda, è segno che quel consenso manca, e che la Carta di tutti viene modificata solo da una parte sulla quale peraltro pesano i quattro handicap menzionati, che non possono essere sanati neanche da un eventuale Sì referendario. E che modifica! Sull’Unità Carlo Fusaro ha definito Salvatore Settis un ‘Pinocchio del No’ per aver detto che la riforma modificherà 47 articoli della Costituzione. ‘Bubbole’, le ha bollate Fusaro: “In effetti, contando gli articoli con modifiche, sarebbero davvero 47. Ma almeno 17 sono oggetto di mera modifica consequenziale”, dunque gli articoli modificati direttamente sarebbero ‘solo’ 30.

È per tutto questo che sostengo che il referendum è un’occasione per fare marcia indietroOccorrerebbe saper andare oltre l’incaponimento un po’ infantile alla premier-che-non-deve-chiedere-mai: se avanzo seguitemi, se indietreggio defollowatemi. Capire il passo falso per il bene del paese. Pensare le riforme assieme. Cercare, sulla costituzione, il consenso e non la rottura. Altrimenti il mea culpa, o meglio il tua culpa, più volte recitato da Renzi sulla riforma ‘a colpi di maggioranza’ del titolo V conseguita dal centro-sinistra, era solo una ipocrita strategia rottamatoria. Si dirà (si è già detto, lo ha detto perfino Napolitano): ma se salta questa riforma ci teniamo per altri cinquanta anni il bicameralismo perfetto. È il trionfo della retorica dell’ultimo giorno, del terrorismo apocalittico: après moi le déluge, hic sunt leones, Renzi come katechon paolino che ferma la venuta dell’Anticristo.

Peccato che il diluvio sarebbe dovuto arrivare dopo Monti (“è l’ultima occasione”) e non è arrivato; dopo Letta, e non è arrivato. Non si capisce perché debba arrivare ora. Il premier ha tutto il tempo, se vuole, di incassare una sconfitta, di crescere politicamente anche attraverso di essa, di imbastire su quella un discorso nuovo e meno muscolare. Oppure, se proprio vogliamo essere corretti, occorrerebbe lasciare che il processo di riforma venisse avviato in una legislatura nuova, con eletti attraverso una legge non incostituzionale (ché sono evidenti i rischi di bocciatura presso la Corte costituzionale pure del cosiddetto ‘Italicum’). Insomma, il premier ritiri la sua lettura plebiscitaria e fiduciaria del referendum costituzionale, eviti di dire che il voto di ottobre sarà un voto su di lui, sul suo governo. Vorrà governare ancora fino al 2018? Bene, a meno di scossoni, a malincuore diciamo: lo faccia. Ma imparando dalla sconfitta. 

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