“Al mattino mi alzo alle sette, e poi chiamo il ragazzo che va a lavorare, e poi preparo la colazione, e poi chiamo il bambino per andare a scuola, lo preparo, poi dopo vado a fare i letti…e poi mi metto a lavorare un po’ a macchina. Lavoro per due o tre ore. E poi, quando sono le undici, mi devo alzare per far da mangiare, fare la spesa […] e faccio da mangiare, e poi arrivano questi uomini: ‘ma è pronto, non è pronto?’. Qui, su, via, si corre. Sempre così, un traffico. Poi, mentre mangio sto sempre in piedi, perché uno vuole il sale, l’altro vuole l’aceto, quell’altro vuole bere. Sempre un movimento, mentre si digerisce. E poi, quando ho fatto le faccende, mi metto a lavorare ancora. Lavoro fino alle sei di sera. Loro arrivano alle sette. Mi alzo e preparo la cena…e poi ho anche il bambino che ha il compito e lì non ci si prende mai con i maestri, perché gli danno il compito […] Poi alle otto sono lì che lavoro ancora fino alle undici di sera e poi vado a dormire. Sono sedici ore tutti i giorni a casa mia, e come a casa mia penso siano tutte le case […] E’ così, è la vita della lavorante a domicilio”.
Se si pensa che la testimonianza della donna carpigiana appartenga al passato, all’era protoindustriale, si commette un grave errore. La realtà fattuale ci dimostra esattamente il contrario. Nel mondo, cresce da decenni, e in modo esponenziale, il numero dei lavoratori a domicilio: secondo le stime internazionali, nel 2004 erano 300 milioni, gran parte dei quali donne. In Italia, i dati Istat del 2014 ci parlano di 4.164 lavoratori a domicilio, dei quali 3.611 sono donne. Si tratta, in ogni caso, di statistiche fortemente inattendibili, in quanto non in grado di rilevare i numeri reali: il lavoro irregolare (sostenuto dall’invisibilità della fabbrica-in-casa) dilaga come uno tsunami in questo segmento del mercato del lavoro, sia a livello mondiale che nazionale. Sfuggono i numeri, scompaiono le storie, cala il silenzio. Tacciono studiosi e istituzioni.
Ma non il bel libro di Tania Toffanin, Fabbriche invisibili. Storie di donne, lavoranti a domicilio, che, con competenza ed eleganza, ci spalanca le porte di questo sconosciuto universo di fatica femminile. Poiché, come sostiene l’autrice, a determinare l’invisibilità della forza-lavoro a domicilio “è stato senza dubbio il genere di appartenenza”. Si tratta, infatti, – afferma Toffanin – “di donne con scarsa qualifica professionale e basso livello di scolarità, in condizione di limitata autonomia, per la dipendenza da carichi di lavoro di cura o perché affette da patologie croniche, che non hanno risorse familiari alle quali attingere e che, nonostante le difficoltà presenti, devono contribuire al bilancio familiare”. Di conseguenza, “la loro debole posizione nel sistema occupazionale e la mancanza di sostegni dalle istituzioni hanno, di fatto, aumentato la loro vulnerabilità e, parimenti, la piena subalternità alle condizioni imposte dalle imprese committenti” (p. 209). Con profondità storica, sguardo globale e l’utilizzo raffinato degli strumenti dell’analisi sociologica, Tania Toffanin interroga e spiega lo stretto rapporto di funzionalità tra il lavoro a domicilio e lo sviluppo capitalistico, intrecciandolo con l’analisi (brillante ed efficace) del rapporto tra il lavoro a domicilio e il lavoro riproduttivo.
Distruggendo senza pietà gli stereotipi diffusi, anche quelli presenti nel dibattito scientifico, il libro ci introduce in milioni di case-fabbriche invisibili, in Italia, negli Stati Uniti, in Europa, e altrove, laddove si producono le merci più disparate (anche quelle tanto utili ai settori più avanzati della robotica, a dimostrazione del fatto che anche le più avanzate tecnologie incorporano pur sempre lavoro sfruttato o sottopagato): cinghie di trasmissione, componenti di quadri elettrici, armi, giocattoli, calzature, capi d’abbigliamento, ecc. Toffanin ci fa incontrare anche decine di lavoratrici a domicilio del nord est italiano, ovvero quel territorio che un tempo era il fior all’occhiello del modello capitalistico italiano (“piccolo è bello”) e che ora vive una profonda crisi, e ci fa scoprire, con amarezza, che le storie di ipersfruttamento delle lavoratrici a domicilio di oggi assomigliano maledettamente a quelle di decenni e, forse, secoli fa: “A domicilio non sei mai pagata abbastanza. Con la scusa che ero a casa lavoravo sempre in modo spezzettato così stavo fino a mezzanotte per recuperare. Mi svegliavo alle sette di mattina. Alle otto i figli andavano a scuola. Di mattina lavoravo due ore e di pomeriggio, dalle due fino alle sei, poi preparavo la cena e dopo cena, dalle nove fino a mezzanotte o l’una. Le interruzioni erano tante e variabili” (p. 187).