Come potevamo non conoscere Lucia Berlin? Una scrittrice di racconti immensa, che viaggia alle altezze di Raymond Carver, proprio a quel livello lì (e gli somiglia, in versione femminile). Se lo sono appena chiesto negli Stati Uniti, dove è stata riscoperta dieci anni dopo la sua morte (in California, nel 2004, era nata in Alaska nel ’36). Questo libro, La donna che scriveva racconti (traduzione di Federica Aceto, Bollati Boringhieri), pubblicato l’anno scorso da Farrar, Straus and Giroux con il titolo A Manual for Cleaning Women (che significa Manuale per donne delle pulizie, ma anche Manuale per pulire le donne, ed è anche il titolo di uno dei racconti più belli) ha scalato di colpo le classifiche e Lucia Berlin, dopo essere stata ignorata per tutta la vita o quasi, è diventata finalmente un’autrice di culto come meritava.
Deve succedere anche in Italia. E qui lancio un appello agli altri scrittori (#LeggiamoTuttiBerlin): andiamo in giro a leggere a voce alta i suoi racconti, fra l’altro perfetti per un reading perché è una maestra del breve. Senza tante parole intorno, la sua voce si impone da sola. La sua forza sta nel fatto che conosce bene quello che racconta. Nel suo caso, l’autobiografismo non è un limite ma un’inesauribile ricchezza, perché è una donna che ha vissuto una tale quantità di vite che potrebbero bastare anche per un altro scrittore. Le sue storie possono essere ambientate in Texas come in Alaska, in Messico come in Cile, e con la stessa scioltezza si entra nelle pieghe di New York. Lo sforzo di aprirsi ad altri mondi non si sente, perché in tutti questi posti lei ha abitato.
Allo stesso modo, sa raccontare i pensieri più profondi di una donna delle pulizie come di un’infermiera perché, lei per prima, ha fatto mille mestieri, fra cui questi. La maggior parte degli scrittori devono entrare nelle vite degli altri, a lei invece non serve: le basta accedere alla sua per trasformarla in qualcosa di universale, che riguarda tutti. E’ moglie infelice ma anche amante in estasi, madre difficile o figlia di genitori scomodi, sorella disperata o donna sola: tutti ruoli appassionati. Di volta in volta, il ruolo scelto è talmente potente da annullare gli altri, o da riassorbirli tutti nel frammento che decide di raccontare, sempre ferocemente incollato al presente. C’è la tragedia dell’alcolismo, c’è l’orrore del cancro, c’è la miseria, eppure tutto muove da una gioia di vivere inarrestabile, capace di trovare uno squarcio di bellezza anche dove non ce n’è.
Con uno sguardo umano simile a quello di Čechov, Lucia Berlin sa dare dignità a qualsiasi personaggio, soprattutto a chi la perde. E lo fa con una voce contemporanea, perché è una coetanea di Carver non di Čechov, quindi procede per connessioni inaspettate e arriva al nucleo semplice delle cose, alla verità più pulita, attraverso accostamenti imprevisti di aggettivi o di pensieri. Perché anche la sua scrittura è ricchissima, come la vita da cui attinge, e in ogni storia si avverte l’urgenza di riuscire a dire davvero qualcosa. Se ne esce commossi: non c’è un racconto superfluo.