Era il novembre 2009. Roma era governata da Alemanno e, in una fredda mattinata, 400 persone vennero sgomberate. Le povere abitazioni furono rase al suolo, non se ne salvò nemmeno una, mentre donne e bambini fuggivano, accatastando gli oggetti salvati dalla furia delle ruspe su carrelli improvvisati. All’ingresso di via Casilino 700, davanti al cordone dei poliziotti, si videro alcune insegnanti di una scuola, dove studiavano i bambini dell’insediamento. C’era anche la preside, che affermò con rabbia «Questa comunità è la più attenta alla scolarizzazione che abbiamo mai avuto. Sono bambini pulitissimi e costanti a scuola, i genitori facevano un grandissimo sforzo nonostante vivessero nelle baracche. Questo sgombero sembra la tela di Penelope, le istituzioni tessono e poi disfano. La scolarizzazione non serve se poi non c’è una politica di accoglienza. Sono qui perché è mio dovere capire dove andranno a finire questi bambini per adempiere all’obbligo scolastico». I bambini furono dispersi ma quella preside, con un pugno di insegnanti, se li andò a riprendere uno ad uno per ricondurli a scuola. Nella scuola che non aspettava i suoi alunni; se li andava a cercare strappandoli alla furia della ruspa.
Negli stessi giorni a Milano, diventata sotto la giunta Moratti una Sgomberopoli che numerava trionfalisticamente le azioni di sgombero, come si contano le medaglie sul petto, si compiva il 166° sgombero forzato in via Rubattino. In un clima di mobilitazione xenofoba, ci fu la rivolta gentile delle maestre e dei genitori che mise in discussione le certezze della città: prima fra tutte quella secondo la quale Milano rifiutava gli ultimi. Fu a partire dalla scuola dove erano iscritti 36 bambini rom, che un intero quartiere si mobilitò contro lo sgombero che aveva investito la baraccopoli del quartiere abitata da persone non più riconosciute come “zingari” ma come “vicini di casa” con i quali scambiare sorrisi e cortesie.
La storia dello sgombero di via Mirri, avvenuto a Roma il 10 maggio scorso, è una storia che ha parlato alla città di Roma. Una storia che, come a Casilino 700 e in via Rubattino ha il suo inizio nella scuola. A via Mirri, l’Associazione 21 luglio, da due anni, si era adoperata per iscrivere tutti i minori nelle scuole dell’obbligo. Ogni mattina 80 bambini partivano sorridenti dalle loro “casette” per vivere spazi di giornata con i loro coetanei tra i banchi di classi multietniche. Poi lo sgombero, senza preavviso, violento, tragico, con le camionette antisommossa che per anni resteranno indelebili nelle memorie dei più piccoli. L’allontanamento, la diaspora, la fine della scuola… Nel silenzio di una città inebedita e confusa dai proclami elettorali, ha colpito la lettera scritta da un gruppo di genitori della scuola elementare frequentata da bambini che non avranno più come vicini di banco i compagni rom: «Nessuno contesta la necessità di garantire l’ordine pubblico e la sicurezza – scrivono le mamme e i papà della periferia romana – ma davvero non capiamo perché non si cerchi di garantire anche la tutela dei bambini: la scuola non è un posto qualunque. È il luogo principale dove attivare politiche di integrazione.
E se quei bambini, accettando di frequentare la scuola, hanno mostrato con le loro famiglie di voler rispettare le regole dello Stato, quello stesso Stato che, allontanandoli con la forza da quel campo, senza un’alternativa almeno per fargli continuare a frequentare la stessa scuola, gli ha precluso la possibilità di mantenere un rapporto di fiducia. Per qualcuno di quei bambini, continuare a frequentare quella scuola potrebbe significare avere un futuro diverso. Così invece li si condanna all’emarginazione senza alcuna possibilità di riscatto. […] E’ questa la nostra riflessione, oggi: quali saranno i sentimenti di quei bambini? Quanto rancore proveranno verso le istituzioni che li hanno allontanati dalla loro scuola, dalle loro maestre, dai loro compagni di scuola?». In un paese vecchio, che la sterilità ha condannato alla disperazione, è dalle aule delle scuole, dove bambini italiani e stranieri parlano con accenti diversi, che rinasce la voglia di ricominciare e di riaffermare quei diritti che lo Stato non è più capace di garantirci. Davanti alle ruspe che abbattono le baracche, e con esse i diritti di ciascuno di noi, la scuola riscopre la sua vocazione di educare tutti ai valori dello stato democratico nato dalla Costituzione. La stessa che, all’art. 34, prescrive che «la scuola è aperta a tutti», senza discriminazione.