Il 5 novembre 2008 è una data entrata a far parte a pieno titolo della storia americana. Si tratta del giorno dell’elezione di Barack H. Obama alla Casa Bianca: un “defining moment” come lo stesso presidente la descrisse nel suo discorso della notte delle elezioni. Il successo di Obama è dipeso da una convergenza favorevole di molti fattori, non da ultimo il carisma dell’uomo. Certamente hanno contributo un sapiente uso dei social media ed il voto compatto delle minoranze, e di quella afroamericana in primis.
Quella stessa notte usciva dalle urne dello Stato della California un verdetto molto più amaro: il passaggio della cosiddetta proposition 8, un emendamento costituzionale che eliminava il diritto al matrimonio delle coppie omosessuali della CA, quale era stato sancito il 15 maggio 2008 dalla Corte suprema dello Stato, a conclusione della disputa che va sotto il nome di “in re marriage cases”. L’approvazione della proposition 8, destinata ad essere superata dal riconoscimento del matrimonio egualitario, quale diritto costituzionale a livello federale, era stata possibile grazie allo stesso elettorato che aveva agevolato l’elezione di Obama a presidente. Gli analisti evidenziarono immediatamente la peculiare dinamica del voto. L’attivismo dell’elettorato afroamericano aveva contemporaneamente favorito l’elezione del primo presidente non-wasp (se escludiamo Jfk), e rigettato nel territorio dei non-diritti la popolazione Lgbt della California.
Questa circostanza, più di ogni altra, ha avuto il merito di focalizzare l’attenzione su una questione fondamentale: ovvero se i diritti delle persone Lgbt siano, al pari di quelli degli afroamericani, diritti civili. Obama ha risposto alla domanda con un chiaro “sì” e, certamente, sarà ricordato come il presidente che più ha fatto per l’avanzamento dei diritti Lgbt. La comunità afroamericana è tradizionalmente considerata parte dell’elettorato democratico. Allo stesso tempo, la storia del Civil Rights Movement ha visto tradizionalmente le chiese come centri di aggregazione, conforto e organizzazione politica degli afroamericani. L’elettorato black è dunque spesso democratico, ma anche molto religioso e questo, in parte, spiega l’esito del voto del 2008.
Una nutrita rappresentanza del clero afroamericano non ha mancato di attaccare a più riprese le rivendicazioni delle associazioni Lgbt. E’ il caso, per esempio, del Rev. Steven Craft che ebbe a dichiarare di sentirsi offeso dall’equazione che veniva proposta tra diritti delle persone afroamericane e quelli delle persone Lgbt. Di fatto – secondo il Reverendo – i diritti civili della popolazione nera discendono dalla natura (non si sceglie di essere black), gli altri sarebbero frutto di semplici scelte personali non vincolanti e, dunque, modificabili. Questa posizione si fonda sul pregiudizio dell’omosessualità in quanto “lifestyle” o scelta. Negli Stati Uniti, è stato a più riprese cavalcato da gruppi politici di estrema destra, con il proposito di dimostrare come i diritti, per loro presunti, della popolazione Lgbt non appartenessero a quella stessa traiettoria di rivendicazioni sociali che durante gli anni 50 e i primi anni 60 erano state territorio quasi esclusivo dell’attivismo afroamericano.
Non esistono prove definitive che possano avallare una teoria scientifica dell’orientamento sessuale, sia esso omo o etero. Esistono le esperienze di una moltitudine di individui che qualificano il loro orientamento sessuale come “non scelto”. La religione e i culti, invece, sono inequivocabilmente frutto di scelte e convincimenti personali, eppure – anzi proprio per questo – sono protetti sia dalla Costituzione americana che da quella italiana. In particolare l’Art. 3, nei suoi due commi, sancisce i principi di eguaglianza formale e sostanziale, stabilendo che sono illegittime discriminazioni sulla base di sesso, razza, lingua, religione, opinioni politiche, condizioni personali e sociali. Ergo, ammesso e non concesso che l’orientamento sessuale sia una scelta, altre personalissime scelte, quali la fede in una religione, si trovano a essere tutelate dal medesimo articolo che vuole proteggere il cittadino da discriminazioni sulla base di caratteristiche “non scelte”, quali la razza. A essere precisi, la tutela della libertà religiosa (cioè di una scelta) è in genere storicamente più antica di quella contro discriminazioni sulla base della razza (cioè di una caratteristica innata).
Il fatto è che nessuna rivendicazione di diritti civili è esattamente uguale a un’altra, poiché nessuna discriminazione si costituisce intorno ad un identico gruppo di pregiudizi. Nel suo saggio del 2003 intitolato “Blacklash?” il prof. H. J. Gates Jr., direttore del dipartimento di studi africani ad Harvard, scrive: “Il razzismo contro i neri carica il suo oggetto di inferiorità, l’antisemitismo invece carica il suo oggetto di ingiustizia. Il razzista crede che i neri siano incapaci di condurre con successo una qualsiasi cosa. Gli antisemiti credono che 13 rabbini… controllino il mondo”. E’ davvero necessario condurre una contabilità del “chi se la passa peggio” per accorgersi che discriminazione, violenza, annichilimento sociale producono la stessa sofferenza sugli individui, quale che sia l’eziologia di un dato pregiudizio?
Scelgo la replica di Nadine Smith, celebrata attivista afroamericana e lesbica che indefessamente continua a combattere, su fronti multipli, nel sud bigotto degli Stati Uniti. Alla domanda se i diritti gay siano comparabili a quelli dei neri, se gli uni siano “più diritti degli altri”, se l’una delle due condizioni comporti maggiore stigma sociale, ella ha risposto: “Chi se la passa peggio?… Sono stata vittima di razzismo, sessismo, omofobia. E la peggior discriminazione tra queste è quella della quale un individuo è vittima nel momento presente!”.