Si attendeva da un po’ di tempo l’entrata in scena del sex scandal sulle elezioni americane, ed eccolo arrivare puntuale all’appuntamento. Trump è certo della nomination e ora il gioco si fa duro. Ci pensa il New York Times a raccogliere certosinamente la rassegna delle frequentazioni femminili del giovane Donald, ognuna della quali avrebbe subito qualche attenzione di troppo, apprezzamenti pesanti o delle richieste ardite di Trump, molto vicine a delle vere e proprie molestie sessuali. La lista della accuse risale fino a 25 anni fa, quando la modella Rowanne Brewer Lane sarebbe stata importunata ad un party in piscina del miliardario americano nella sua casa di Palm Beach, in Florida. Molte di queste donne hanno avuto improvvise reminiscenze dei loro ricordi tremendi del passato, e riacquistano così d’un tratto delle memorie perdute che solo il passare degli anni ha riportato ala luce. Singolare che tutte quante lo abbiano fatto allo stesso momento e abbiano deciso di rivolgersi tutte allo stesso giornale, il New York Times. I meccanismi di questa inchiesta in realtà assomigliano molto a quelli ben collaudati della macchina del fango. Chi viene chiamato sul banco degli imputati dei media, dalle accuse di donne che fino ad ora avevano taciuto sulle presunte molestie subite, non ha molte possibilità di appello.
Il processo si è già celebrato sulle pagine del NYT. E’ lo stesso titolo dell’inchiesta a non lasciare possibilità di appello: “Come Donald Trump si è comportato con le donne in privato”. Fine della discussione. Si dà per scontato che queste accuse siano autentiche e che il comportamento di Trump con le donne nella vita privata sia quello descritto dalle signore intervistate dal quotidiano newyorchese. Non si comprende per quale motivo nessuna di queste donne si sia rivolta prima alla giustizia, e abbia denunciato il comportamento di questo magnate molesto. Negli Usa ci sono eserciti di avvocati specializzati nell’ottenimento di risarcimenti milionari, e casi come questi sono una vera e propria miniera di denaro e fama sia per le vittime, sia per i loro legali. Si dirà che non rileva in questo né la fama, né la possibilità di avere dei risarcimenti da Trump, ma i profondi traumi psicologici che queste molestie hanno lasciato sulle vittime. D’accordo, ma allora per quale motivo queste donne non hanno scelto canali più discreti per fare valere le loro ragioni, e perché lo fanno solamente ora nel bel mezzo della più importante campagna per le presidenziali Usa degli ultimi 35 anni?
A parti inverse, con la Clinton sul banco degli imputati, sarebbe stata ugualmente una barbarie e una gogna inaccettabile. Ma è il livello della stampa anglosassone a raggiungere punti ancora più bassi. Il Nyt non è certamente più il quotidiano autorevole di un tempo, capace anche di forti critiche contro quei poteri che rappresentano l’establishment. Sono adesso gli interessi primari dell’establishment il riferimento della linea editoriale del quotidiano newyorchese, e sono questi che vanno difesi da qualsiasi minaccia che rischi di comprometterli.
Il mainstream giudica Trump irriverente, irrispettoso, impertinente, razzista, sessista e infine populista. In una parola “unfit” per il potere. Ognuna di queste accuse potrà contenere anche un fondo di verità, ma non è certo questo il motivo del panico che contagia i media e gli analisti politici. Quello che preoccupa sul serio i circoli delle lobby atlantiche e i media, è la nuova visione di Trump sul ruolo degli Usa nel mondo, e in questo il suo discorso di politica estera ne è l’esempio più fulgido. Fine delle ostilità con Putin, con il quale va cercato un accordo per mettere fine alla contrapposizione dei due blocchi e all’aggressività militare della Nato ai confini della Russia. La funzione del Patto Atlantico è superata, sia per gli enormi costi finanziari per le casse del Tesoro americano, sia perché non c’è più alcuna minaccia comunista da arrestare dall’altro lato dell’Europa Orientale. Trump non vuole continuare a spingere oltre il peso della leadership americana, ed è pronto ad adottare una strategia isolazionista in politica estera. La rabbia dell’establishment nasce dal fatto di non poter controllare, come è stato possibile negli ultimi decenni, entrambi i candidati alla presidenza.
Ma la responsabilità, paradossalmente, di aver permesso a Trump di concorrere per la presidenza e di avere delle possibilità di vittoria contro la Clinton, è proprio del lobbismo atlantico e delle sue politiche. Il divario socio-economico tra le classi sociali non ha fatto altro che divenire più marcato negli ultimi decenni. I gruppi etnici degli ispanici e degli afroamericani sono ancora tra i più poveri, e persino la middle class white, la spina dorsale dell’economia americana, si è impoverita. E’ proprio tra questi strati della popolazione che il candidato repubblicano pesca il suo consenso. La globalizzazione ha creato un paradigma comune tra democratici e repubblicani che hanno sostanzialmente perseguito le stesse linee guida sia in politica economica sia in politica estera. Trump in fine dei conti non è altro che un prodotto della globalizzazione stessa, una risposta antipolitica contro il pensiero unico mondialista. E’ questo il segreto del suo successo, ed è questo che toglie il sonno a molti globalisti.