Il video #MoreThanMean non è facile da guardare fino alla fine. Due donne ascoltano in silenzio frasi come “spero tu venga violentata” o “ti meriti che il tuo ragazzo ti picchi”. Le donne sono due giornaliste, Sarah Spain di Espn e Julie DiCaro di Sport Illustrated. Gli uomini seduti davanti a loro leggono tweet e commenti mandati alle due giornaliste. Le due donne hanno ricevuto questo genere di insulti per buona parte della loro carriera, ma non riescono a nascondere lo shock. Gli uomini non sono gli autori dei commenti ma sono visibilmente a disagio mentre leggono commenti estremamente misogini e intimidatori.
La campagna #MorethanMean denuncia l’espressione più comune e vigliacca del bullismo, quello che si nasconde nell’anonimato della rete.
Il cyberbullismo, infatti, è un problema globale, sta diventando sempre più pressante e le più colpite da questa nuova forma di vessazione, devastante quanto intangibile, sono le donne.
A dicembre, l’Istat rivelava che il 5,9% dei giovani tra i 14 e i 17 anni ha denunciato insulti, offese o minacce ricevuti via sms, email, chat o social network. Due terzi degli intervistati pensano che il fenomeno del cyberbullismo stia esplodendo, diffondendosi nel silenzio attonito delle vittime e nell’indifferenza di chi vede ma minimizza. L’Istat conferma che le più colpite sono le ragazze (7,1% contro il 4,6 dei maschi). La misoginia è, infatti, una caratteristica del cyberbullismo globale, è diretto a donne di tutte le età e non fa distinzione tra figure pubbliche o meno.
Anche in Uk il trolling più crudele e insistente viene spesso riservato a ragazze e donne. Lo ha dimostrato chiaramente una ricerca del quotidiano Guardian condotta ad aprile. Al Guardian si sono accorti che il numero di commenti aggressivi e talvolta intimidatori stava diventando sempre più difficile da gestire e hanno deciso di analizzare oltre 70 milioni di commenti dei lettori.
Nella triste top 10 del cyberbullismo diretto ai giornalisti del Guardian le prime otto vittime sono donne. Il fatto che tra i 10 più vessati due delle donne e uno degli uomini siano gay, che quattro giornaliste ed entrambi i giornalisti non siano bianchi e che tra le giornaliste ci siano una musulmana e un’ebrea non fa che contribuire a un quadro deprimente di sessismo e razzismo fomentato dall’anonimato della rete. Abuso che si basa esclusivamente sull’identità di chi scrive e non ha nulla a che fare con critiche o dissenso legati alle opinioni espresse.
I giornalisti meno abusati dai commentatori del Guardian? Gli uomini, bianchi, eterosessuali.
Il Guardian ha anche rilevato che gli articoli che in assoluto attirano più insulti e trolling sono quelli che parlano di questioni di genere e violenza sessuale. E che parlare di sessismo può esporre al cyberbullismo lo conferma anche la giornalista Emma Barnet, che nel suo programma alla radio LBC ha chiesto ai troll che la perseguitavano, di spiegare il motivo di tanto livore. A quanto pare i cyber-bulli credono che le loro vittime si meritino il trattamento ricevuto: “mettono in dubbio cosa significhi essere uomini, e vanno tenute a bada”.
Non sorprende quindi che negli ultimi anni i social media permettano di bloccare completamente i commentatori molesti, e che molti Paesi stiano considerando nuove leggi che tutelino le vittime e puniscano i troll più violenti.
E sempre più siti internet ormai moderano con severità o hanno chiuso completamente la sezione dei commenti dei lettori. Una decisione che alcuni considerano come una limitazione del dialogo ma che viene vista come una misura che protegge anche la reputazione e gli interessi commerciali della testata. Uno studio di Atlantic, infatti, conferma che quando i lettori sono esposti a commenti incivili alla fine di un articolo, si fidano meno del suo contenuto (una sorta di “effetto cattiveria”). E sembra che le posizioni estremiste, gli insulti gratuiti, la violenza verbale dei commenti non soltanto danneggino la credibilità dell’articolo ma, nel lungo periodo, possano avere un impatto negativo su traffico e abbonamenti.
I commenti però sono una risorsa preziosa, un’opportunità di scambio e coinvolgimento e un modo per arricchire il dibattito. Eliminarli sembra quindi una soluzione estrema. Censurare o chiudere gli spazzi di dialogo digitale non è quindi la soluzione. Come ha dichiarato la ex ministra britannica Yvette Cooper, al lancio di Recl@im the Internet bisogna invece “riappropriarsi del diritto di usare internet senza il timore di diventare vittime di misoginia, minacce e insulti”.
Programmi educativi mirati e sensibilizzazione sugli effetti che gli abusi virtuali possono avere sulle vittime possono aiutare a scoraggiare chi non si rende conto del male che può fare, in particolare i più giovani.
Ci sono molti modi efficaci per liberarsi dei molestatori più incalliti che si sentono protetti dall’anonimato della rete. In Italia, anche se la proposta di legge su questa materia (presentata dalla senatrice Pd Elena Ferrara) non è ancora stata approvata, ci si può già rivolgere alle forze dell’ordine, che riescono facilmente a risalire all’identità dei cyber-bulli.