Durante un dialogo con il poeta e studioso Gabriele Frasca, tempo fa, avemmo modo di riflettere sul processo di “seriazione” da cui è stata travolta la poesia dal momento in cui è nato il libro, inteso come oggetto frutto di una produzione a “catena”. Guardare i due bellissimi testi che sono sulla mia scrivania e di cui voglio parlarvi oggi, Viaggiatori nel freddo (ExOrma ed.) dell’autore collettivo Sparajurij (in questo caso Francesco Ruggiero, poeta, ed Elisa Baglioni, raffinatissima traduttrice dal russo e poetessa) e Viandanza (Laterza ed.) di Luigi Nacci, mi suggerisce che la poesia, e più in generale la cultura, proprio a partire dalla loro ‘seriazione’, sono state vittime anche di un’altra evoluzione, che potrei qui definire un processo di ‘sediazione’, nel senso che sempre più la produzione e la trasmissione di cultura si sono ‘sedute’: esse avvengono da fermi, in posizione assisa, una faccenda che per molto tempo era stata riservata quasi esclusivamente al momento dell’amministrazione del potere e della giustizia.
E la poesia? Che ne è di un’arte che misura le sue forme in “piedi” e che ama essere eseguita stando in piedi? (Diffido sempre dei poeti che leggono i loro testi da seduti). Entrambi i libri di cui dicevo sopra, sia pure lateralmente, ci dicono qualcosa al proposito. Il nobile genere del reportage, ibridato con il gusto di collocare le opere nei loro luoghi geografici, sembra essere la chiave del viaggio moscovita di Sparajurij. Ma c’è di più. Si tratta del referto di un lungo percorso nella letteratura russa di ieri e di oggi (e forse di domani) in cui, però, l’aspetto del viaggio, dello “spiazzamento” geografico, non è un semplice pretesto, ma parte integrante di un’operazione a più livelli, tanto temporali quanto spaziali e certamente letterari. La poesia e i suoi luoghi sono condannati a un legame infinito, soprattutto se quei luoghi sono parte dell’opera, contesto indispensabile alla comprensione del testo.
Nasce così un’operazione di mise en abyme: si viaggia nei luoghi che sono quelli che fanno da scenografia alle parole dei poeti e dei romanzieri. Si cerca traccia di ciò che ha lasciato traccia, ma sempre la ricerca delle parole rimbalza verso il reale. Puntualmente l’appuntamento è mancato: la letteratura sta sempre di lato alla realtà, in un tempo sospeso che appartiene ormai soltanto all’immaginazione. Come sempre la realtà dà scacco alle parole, a quelle delle poesie come a quelle dei romanzi. Ma è solo grazie a questo scacco (che fa sì che il tram numero A sia chiamato comunemente Annuska, ma che questo non abbia nulla a che fare con il celeberrimo inizio del Maestro e Margherita di Bulgakov, né con la testa mozzata di Berlioz) che il presente può nascere con tutta la sua forza, la forza dei tanti nuovi poeti moscoviti ritratti in questo falso reportage che è poi una lunga, profonda riflessione su come la poesia possa percorrere i luoghi e trasformarli. Di come la poesia sia attraversamento, cioè viaggio.
Parla di un mettersi in cammino che richiede tutto il coraggio del mondo, nel suo essere allegoria del nostro “essere nel mondo”. E questo cammino è intarsiato di poesia, una poesia che Nacci sparge qua e là, in modo apparentemente casuale, ma in realtà seguendo un preciso disegno. La poesia, in fondo, sembra dirci Nacci, è là anche a ricordarci che siamo nati nomadi: per questo ogni volta che ci mettiamo in cammino la poesia fa capolino. Quando si è in viaggio, o meglio, quando si è in cammino, lo si fa sempre in compagnia della poesia, anche se con sé non si ha alcun libro di poesia, anche se non ricordiamo neanche un verso, né abbiamo mai letto o ascoltato poesia.
La poesia alligna precisamente nei nostri piedi, nel ritmo del nostro cammino, che proprio grazie alla sua dinamica, al suo fare dell’esperienza una faccenda che appartiene allo spazio tanto quanto al tempo necessario per percorrerlo, è in sé dromologia poetica, capacità di unire ciò che non potrebbe essere unito, di dividere ciò che ci appare unico. Sono i poeti che sono, innanzitutto, viandanti, e la poesia che in realtà altro non è che un cammino, un viaggio in cui ogni frase è sentiero e ogni parola un cruze di senso pronto a scattare per trasformare il viaggiatore in un nomade; una “viandanza” del pensiero e dei sentimenti che scopre volta per volta la sua Santiago, solo per superarla e inventarne una di nuova.