La campagna per le primarie Usa continua. I prossimi appuntamenti sono il Kentucky e l’Oregon. Poi il 7 giugno, importantissima, la California. Lo scenario non cambia di molto, rispetto alle scorse settimane: Donald Trump, ormai senza rivali, è destinato ad arrivare alla Convention di Cleveland come il presunto, probabile candidato dei repubblicani. Hillary Clinton si comporta come la candidata inevitabile, ma intanto è costretta a investire migliaia di dollari – 200mila in spot televisivi soltanto in Kentucky – per vincere una volta per tutte le resistenze di Bernie Sanders. Intanto, però, in un campo come nell’altro, una cosa appare sempre più chiara: che queste elezioni si vincono sui temi economici. Come dimostra il fatto che l’ex segretario di Stato abbia deciso in extremis di giocare la “carta Bill”: se sarà eletta, ha annunciato, affiderà al marito ed ex presidente il compito di rivitalizzare l’economia Usa.

Non si tratta di una novità. In fondo anche le elezioni del 2008 e del 2012, quelle in cui ha trionfato Barack Obama, sono state vinte soprattutto grazie all’economia. Se questo fosse ancora vero, i democratici dovrebbero risultare favoriti. Obama lascia la Casa Bianca senza aver rivoluzionato l’economia Usa, ma con una serie di risultati tutto sommato positivi. Anzitutto, in tema di occupazione, con la creazione di 13,6 milioni di posti di lavoro durante i suoi due mandati e la disoccupazione in calo, da circa il 10 per cento della forza lavoro all’attuale 5 per cento (dati dell’aprile 2016). Le cose non sono però così semplici. Perché il messaggio di Donald Trump, per quanto elementare e ricco di accenti demagogici, rischia di risuonare con particolare forza tra gli elettori della Rush Belt, degli Stati del Midwest e di parte del Sud – West Virginia, Ohio, Indiana, Michigan, Wisconsin – segnati da un decennale declino industriale ed economico e che meno hanno goduto della ripresa di questi anni.

Ricetta Trump: protezionismo, penalizzazioni per i gruppi che delocalizzano, stop all’immigrazione – “La nostra idea è molto semplice – ha detto Trump la scorsa settimana in Indiana -. Fare tornare grande l’America. E faremo tornare grande l’America. Torneremo a vincere”. Dietro questo messaggio per l’appunto “molto semplice”, ci sono una serie di proposte altrettanto semplici e dirette al cuore delle ansie economiche americane: costruire un muro, farla finita con i trattati economici internazionali, deportare gli 11 milioni di immigrati illegali attualmente negli Stati Uniti. La retorica di Trump si è in questi mesi rivolta soprattutto alle questioni del commercio. “Sconfiggeremo la Cina sul commercio, sconfiggeremo il Giappone e il Messico” ha spiegato il miliardario,, che ha anche definito il disavanzo tra import ed export con la Cina, pari a 366 miliardi nel 2015, “il più grande furto nella storia del mondo”.

Non si tratta di una posizione nuova. Almeno dalla fine degli anni Ottanta, Trump descrive le politiche commerciali degli Stati Uniti come “un gioco a somma zero”. “Il deficit commerciale con la Cina significa una cosa sola: che facciamo affari in perdita ogni anno”, ha detto il candidato repubblicano, che ha chiesto di alzare le tariffe commerciali, rinegoziare singolarmente i trattati e promesso di penalizzare quelle società che costruiscono fabbriche all’estero. Tra i suoi esempi favoriti, in questi mesi, ci sono stati marchi come Ford e Carrier, che hanno spostato la produzione in Messico.

Alcuni fanno notare che Donald Trump, con il suo isolazionismo politico ma soprattutto commerciale, riporta in auge un pensiero mercantilistico che da almeno un secolo non aveva più corso nel panorama culturale americano – soprattutto in quello conservatore e repubblicano, dove la fiducia nel libero mercato, nell’abbattimento dei dazi e nei tagli alle tasse sono diventati moneta corrente. In particolare, se eletto Trump ha promesso di abbattere il North American Free Trade Agreement (Nafta), entrato in vigore nel 1994, durante l’amministrazione di Bill Clinton, e di rescindere il Trans Pacific Partnership (Tpp), l’intesa commerciale con 12 Paesi – tra cui il Giappone, la Malesia, Singapore, il Vietnam. Il tema è molto caldo, tanto che democratici e repubblicani hanno preferito rinviare a novembre il voto del Congresso sul Tpp. Quindi, dopo le elezioni per Casa Bianca e Congresso.

Ci sono comunque, per finire, tutta un’altra serie di aree e di proposte nelle quali Trump potrebbe risultare molto gradito a larghi settori della working-class americana: Trump non ha espresso alcuna volontà di tagliare la Social Security o di innalzare l’età pensionabile (come invece vogliono fare la maggioranza dei repubblicani). Ha detto di non appoggiare l’idea di un minimo salariale federale, ma si è anche detto “del tutto cosciente che che è difficile sopravvivere con l’attuale minimo di 7,25 dollari, e di essere pronto a fare qualcosa”. Insomma, con il suo approccio del tutto anti-ideologico, con la sua miscela di temi tipici del pensiero conservatore con altri di eredità progressista, con un piglio decisamente populistico, Trump può mettere in difficoltà i democratici in diversi Stati nelle elezioni di novembre.

Clinton prende le distanze da se stessa. E di commercio parla il meno possibile – I rischi per i democratici, in particolare per Hillary Clinton, sono riassunti in quanto scritto qui sopra. Di fronte a un uomo d’affari privo di una vera storia politica, senza grandi scrupoli, capace di porsi senza problemi alla sinistra e alla destra del partito democratico, i democratici e la Clinton in particolare possono avere seri problemi. Anzitutto sulla questione delle politiche commerciali. La Clinton, da segretario di Stato, ha appoggiato il Trans Pacific Partnership – come strumento di coesione geo-strategica, oltre che per ragioni economiche – salvo poi prenderne le distanze in campagna elettorale. Quanto al Nafta, diventato legge nel 1993, la Clinton non ha mai espresso l’entusiasmo incondizionato del marito Bill, ma non l’ha mai nemmeno apertamente osteggiato. Durante il suo mandato da senatrice dello Stato di New York, tra il 2001 e il 2009, Clinton ha però sempre espresso il suo appoggio per quei trattati internazionali “che aumentano gli standard di vita delle persone e incentivano lo sviluppo economico” (sue parole al Senato nel 2005).

Sono posizioni che hanno decretato la sconfitta della Clinton, e la vittoria di Bernie Sanders, in diversi Stati del Midwest. In un dibattito con la Clinton prima del voto in Michigan (poi finito proprio nelle mani del senatore), Sanders ha spiegato che il Nafta ha provocato la perdita di 800mila posti di lavoro nell’industria statunitense. Altri milioni in questi anni sono emigrati in Cina, ha ricordato Sanders, e altri ancora prenderebbero il volo se passasse il Tpp. Il tema dunque rimane di forte imbarazzo per il team Clinton. Non è un caso che se si va sul sito della campagna della Clinton, sotto l’indice “Questioni”, la voce “Trade”, commercio, è assente, e non c’è nemmeno una generica dichiarazione a favore del libero mercato.

L’ex segretario di Stato in difficoltà: le manca uno slogan economico chiaro – I problemi diventano ancora più spinosi se dai temi commerciali si passa a quelli del lavoro e dell’economia. A differenza di Trump, che ha un messaggio estremamente semplice e comprensibile, la Clinton è una politica che non ha mai brillato per la sua capacità di essere diretta e comprensibile. “Non è una che riesce a dire le cose in una sola frase – ha spiegato David Axelrod, ex-consulente di Obama -. La Clinton è tutta paragrafi e pagine intere”. Lei stessa peraltro lo ammette: “Spesso la gente mi critica, dice: ‘Oh mio dio, ecco un altro piano. Il problema è che non sono come Bill o Barack”. La scarsa capacità di racchiudere la sua strategia in un messaggio, come furono per esempio “hope” e “change” nel 2008, si somma a un messaggio effettivamente sfocato.

Nel programma della Clinton ci sono una serie di idee che cercano di venire incontro alle ansie e ai problemi degli americani: college gratuito, sanità per i minori, l’aspettativa familiare pagata. Proposte che si pongono nel quadro della continuazione delle politiche di Obama, senza però un’idea forte di sviluppo complessivo per il Paese. Lo stesso slogan della campagna della Clinton, “Breaking Down Barriers”, abbattere le barriere, sembra più rivolto a donne, ispanici, afro-americani, che alla classe media bianca, e questo potrebbe rappresentare un problema in più in alcuni Stati del Sud e del Midwest.

Le possibili, anzi probabili, difficoltà di novembre sono state del resto registrate dalla pollster Celinda Lake, una degli analisti di punta del partito democratico. In una serie di sondaggi, la Lake ha trovato che i democratici sono in vantaggio sui repubblicani, quanto a intenzioni di voto, in tutti i settori della vita pubblica, tranne uno: l’economia. “Nessun candidato democratico ha mai vinto le elezioni senza vincere sui temi economici – spiega la Lake -. La Clinton deve articolare un piano economico forte. Deve rispondere alle domande: Perché non siamo competitivi? Perché non c’è lavoro nell’industria? Finora, a queste domande, non abbiamo risposto.”

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