La Fanciulla del West, l’amore conta ma non basta: il gioiello di Puccini tra la paura dello straniero e il dolore del profugo
Alla Scala fino al 28 maggio il ritorno del "western" della lirica, per la regia di Robert Carsen e diretto da Riccardo Chailly. Il salto verso il futuro, dal punto di vista musicale, che il compositore toscano volle fare dopo il trionfo del tris Bohème-Tosca-Butterfly
“Furon gli occhi e il sorriso di Minnie a disarmarti!”, “Anche lei ci hai rubato”, “Ladro, ladro”, “Ladri d’oro e di ragazze”. In paese arriva lo straniero e tutti lo accusano di tutto: del fatto che per vivere ruba, di omicidi per i quali invece è innocente, di rubare perfino le ragazze, cosa percepita come la più odiosa. Sembrano i temi della campagna elettorale di certi partiti che corrono alle Comunali del 5 giugno e invece è la conferma che certe storie sono senza tempo e l’arte è lì a ricordarlo. Cent’anni di più e cent’anni di meno non fanno differenza: la Fanciulla del West, il gioiellino con cui Giacomo Puccini – dopo i trionfi del tris Bohème-Tosca-Butterfly – trascinò la sua musica (e la lirica) nel Novecento, fu composta tra il 1907 e il 1910 sulla base di una storia (The girl of the golden West) scritta ancora prima da David Belasco.
Due sole note portano a un “mondo sonoro nuovo”, come dice Riccardo Chailly, che fino al 28 maggio dirige l’opera al teatro alla Scala nella partitura originale (e non quella modificata di Arturo Toscanini). Ma mentre Puccini, con Minnie (Eva-Maria Westbroek) e il suo straniero Ramerrez (Roberto Aronica), porta la musica un passo verso il futuro, viceversa è lì a rammentare tutte le questioni ancora aperte nelle società di tutto il mondo, America compresa. E’ lei, Minnie – un po’ angelo del focolare, un po’ redentrice, un po’ eroina piena di vigore – a salvare il suo amato dal cappio dell’impiccagione, piegando alla commozione – uno dopo l’altro – i minatori che fino al giorno prima aveva curato (ma con la “giusta distanza”) e spezzando così quel “rito barbarico corale in cui si festeggia la pena capitale con la preparazione della forca” (ancora Chailly).
I pregiudizi sullo straniero “pericolo pubblico”, la pena di morte, ma anche il malessere della condizione di migranti, quali sono molti dei minatori. Lo stesso antagonista, lo sceriffo Jack Rance (Claudio Sgura), che pure corteggia Minnie, ma con modi poco urbani perché quelli urbani un po’ li disprezza, forse per paura: “Mi son messo in cammino attratto sol dal fascino dell’oro – scommette lui – E’ questo il solo che non m’ha ingannato. Or per un bacio tuo getto un tesoro!”. Ma, poveretto, “l’amore è un’altra cosa” risponde lei, anche se non sa cosa. “Poesia!” chiude lo scambio Rance non risparmiando il sarcasmo, il disincanto.
Ma quelle parole arrivano dopo che lui le ha raccontato la sua storia triste di esule: “Nessuno mai mi amò, nessuno ho amato, nessuna cosa mai mi diè piacere”. E così il suo cuore è “amaro e avvelenato”. Cerca in Minnie la salvezza dalla durezza della vita. E’ una cosa diversa dall’amore, “l’amore è un’altra cosa”, appunto, ma alla fine Minnie migliora lui e i minatori che sembrano risolversi solo in un clima da osteria, vanagloria e schiamazzi, bottiglie e mazzi di carte, spedizioni punitive e cappi da stringere.
Tutti i personaggi, come suggerisce il regista Robert Carsen che ritrova la Fanciulla vent’anni dopo, si trasformano nel corso dell’opera. Minnie, per esempio, all’inizio è una ragazza per bene, “con principi tradizionali sull’amore e sulla famiglia, quasi una specie di missionaria – sottolinea Carsen – Fa da maestra ai minatori, legge loro la Bibbia, li invita a non mentire e non rubare, alla fine del secondo atto fa l’esatto contrario di quel che predicava nel primo: inganna, mente e bara addirittura a carte” (per battere lo sceriffo e salvare la vita all’amato tenore). Un’incoerenza “dettata dalla passione, l’attrazione dell’amore l’ha trasformata”. Viceversa Ramerrez, il tenore, era ladro per necessità e l’influenza dell’animo dolce di Minnie su di lui, spiega Carsen, “è senz’altro positiva: è venuto lì per rubare, ma non ruba. L’amore lo ha migliorato“. Insomma “l’opera ci racconta che l’amore, per quanto illogico e indefinibile, è una delle nostre poche ricchezze”.
La Fanciulla del West è un salto in avanti di Giacomo Puccini, soprattutto musicale. Gli esperti dicono che si sentono in lontananza Debussy e i compositori russi, i musicologi spiegano che l’accelerazione ambiziosa del compositore lucchese porta dal recitar cantando – che ha fatto la storia d’Italia nel mondo (fino alla sua stessa Madama Butterfly)– a un accompagnamento musicale dell’opera. Una forma “impressionista” la definisce qualcuno, anche con momenti “pittorici”. Di sicuro Puccini abbatte le convenzioni, non fa venire giù il teatro per gli assoli, usa le voci maschili come se fossero un collettivo senza individualità, dà all’orchestra un ruolo quasi fisico di conduttrice principale del gioco. Il percorso della Fanciulla è un play with music, una scena a braccetto della musica, come la definì William Ashbrook (e come ricorda Maurizio Giani, musicologo e prof a Bologna).
Insomma: con una licenza più prosaica si potrebbe dire che Puccini con il primo western italiano dà materiale per le colonne sonore di quasi un secolo di cinematografia del Far West. L’effetto è magico quando l’allestimento di Carsen e Luis Carvalho (che lo aiuta per le scene) decide nel primo atto di far girare sullo sfondo spezzoni di film con i cappelloni che cavalcano verso chissà dove. E ancora di più quando per l’effetto di luci e filtri alcune parti della scena viva sul palco, nel secondo atto, sono trasformate in girati “sporchi” del cinema della prima metà del Novecento. Scelte che mettono in evidenza la visionarietà di Puccini, che va oltre la fascinazione e lo studio dei suoni di mondi “altri”, dei canti e del folklore: il Giappone della Butterfly, il West americano, la Cina della Turandot. Il teatro che anticipa il cinema, come suggerisce l’alta tensione del ritmo della partita a poker tra Minnie e lo sceriffo. Decenni prima Terence Hill (che però giocava in silenzio), decenni prima dei trielli.