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Lino Toffolo, morto l’attore cabarettista e cantautore: una poetica stralunata e buffa per 50 anni di carriera (FOTO e VIDEO)

Era un artista poliedrico perché nel suo curriculum si poteva scrivere anche regista e musicista. Non si prendeva mai sul serio ed è irresistibilmente ironica anche la biografia che compare sul suo sito dove si ricordano gli inizi in radio e la "vocazione di menestrello" che lo portò a lavorare al Derby. Senza dimenticare cinema e teatro

di Davide Turrini
Lino Toffolo, morto l’attore cabarettista e cantautore: una poetica stralunata e buffa per 50 anni di carriera (FOTO e VIDEO)

“È la fine del mondo…Boom!”. Lino Toffolo, attore comico, gentile e “imbriago”, è morto lunedì scorso ad 82 anni. Sospeso poeticamente su una nuvoletta bianca, sempre in punta di piedi, come se la battuta comica o il verso da cantare provenissero da lontano senza mai dover arrivare fino in fondo, Toffolo con il suo borbottante filo di voce amalgamato nel dialetto veneziano, con la sua dinoccolata e apparentemente avvinazzata presenza sui palchi di cabaret, cinema, tv e teatro, in 50 anni di carriera ha continuamente composto, decostruito e ricomposto un personaggio indimenticabile.

L’aveva scelto, l’ “imbriago”, come fosse una maschera, una rappresentazione regionale, ancor di più locale, anzi veneziana, lui che era nato a Murano nel 1934, con un significato ben preciso perché “permetteva” al personaggio “di cambiare ragionamento senza spiegarne i motivi”. Geniale. Una poetica stralunata e buffa, libera ed anarchica, degna di un altro luogo di stralunati e ribelli del canto e della battuta come quelli del Derby di Milano dove Toffolo arrivò nel lontano 1963, facendo subito teneramente il paio con i poetici ghirigori linguistici di Enzo Jannacci: si vedano il “itta tira itta tira tattira tira ta” ne L’armando con i numerosi “tan tan” di Toffolo nei suoi monologhi. Lì ci sono Gaber e Lauzi, e poi a seguire Cochi e Renato.

Una primissima levata di battitori liberi, audaci nei contenuti, sempre pronti a improvvisare nuovi stornelli con la chitarra legati al monologo comico in scena. È una stagione artistica che oggi molti under 30 faticherebbero a capire, perché Toffolo nella sua autenticità veneziana proveniva sì dalle tracce mia sepolte della commedia dell’arte, ma allo stesso tempo si apriva e parlava della sua gente, signori e popolani, ricchi e poveracci, figure umane che popolavano insieme il boom delle rinascita senza abbandonare le antiche radici popolari.

Dai un’occhiata alle presenze sui set cinematografici tra il finire dei sessanta e gli inizi dei settanta con le commedie di Salvatore Samperi, un veneto, padovano pardon, come lui, e capisci il comune sentire della “celebrità” con la “gente”. Prendete Un’anguilla da 300 milioni (1972) dove contesse si mescolano con pescatori, ex partigiani con preti e ladruncoli immersi nei canneti della laguna. La lingua, diceva Toffolo, “è sentimento del popolo”. Inutile negarlo, lui la lingua sua l’ha sempre imposta: prima al Derby, poi in Rai dove lo volle Gaber a fare l’ “imbriago”, poi sempre ogni volta al cinema con la Wertmuller in Chimera (1968), con Monicelli in Brancaleone alle crociate (1970) – apoteosi dell’invenzione linguistica tout court-, ancora in Telefoni bianchi di Risi e in Yuppi Du di Celentano, altro film folle e stralunato, immerso nell’acqua alta, dove Toffolo interpreta Nane, ennesimo sbrindellato popolano pieno di figli da mantenere.

Poi attorno al ’78 la carriera d’attore finisce. “Mi hanno proposto tante troiate, sempre rifiutate”. Ed è sempre sul finire dei settanta che Toffolo si afferma come cantante. Divertissment per bambini come Johnny il bassotto, lo spot della marmellata Santa Rosa (“chi ha mangiato la marmellata?” Eh? Chi sa-rà?”), ma anche Ah, lavorare è bello, straordinaria performance d’indipendenza culturale e antropologica antisistema, sempre con disincanto, mai urlata e sguaiata. Ancora negli ottanta la televisione commerciale del sabato sera, dove riprende i monologhi del Derby e fatti in Rai, e negli anni novanta tanto teatro classico, ma anche autoprodotto. Toffolo ai set, alle scene erotiche con le divette anni settanta (celebre le sequenze a letto con Sylva Koscina in Beati i ricchi), ha sempre preferito la tranquillità della sua famiglia, la sua casa, la sua “venessia”.

Nel 2011 gli si rompe la macchina per caso proprio vicino Torino (“stavo andando in Francia, ho avuto problemi con l’auto, e mi hanno detto ‘visto che sei qui perché non reciti questa parte?”), così torna su un set, quello de Il giorno in più con Fabio Volo. Il mondo è cambiato, disse, “il cinema non è più campo e controcampo”, mille inquadrature, sembra uno spot. Però Toffolo, nonostante la sua maschera pop di un mondo che non c’è più, di nostalgia non ne ha mai voluto parlare. Che se ne sia andato dopo un banale intervento ad un polso fratturato accidentalmente lascia tanta tristezza. Tante volte avrebbe potuto ancora farci sorridere, il suo ‘imbriago’ che, e il segreto se l’è portato nel paradiso dei commedianti, nella realtà non aveva mai toccato un “goto de vin”.

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