Il Tribunale deve esprimersi su un'istanza presentata dalla difesa che chiede di far cadere il pericolo di inquinamento probatorio. Anche in caso di accoglimento, comunque, il presunto killer resterebbe in carcere per pericolo di fuga e il rischio di reiterazione del reato
“Non c’entro nulla con l’omicidio, non ho ucciso io Lidia, non ho inquinato le prove né potrei farlo”. Stefano Binda, il presunto killer che si trova in carcere dallo scorso 15 gennaio per l’omicidio della studentessa avvenuto nel gennaio del 1987 (leggi), ha professato, per la prima volta dopo l’arresto davanti a dei magistrati, la sua innocenza, sempre ribadita, comunque, anche attraverso i suoi legali, gli avvocati Sergio Martelli e Roberto Pasella (leggi).
Nei precedenti interrogatori dopo l’arresto davanti al gip di Varese e al sostituto pg di Milano Carmen Manfredda, infatti, Binda si era sempre avvalso della facoltà di non rispondere. Oggi, in particolare, l’uomo ha reso brevi dichiarazioni spontanee davanti al Tribunale del Riesame di Milano che si è riservato di decidere su un’istanza della difesa. I legali chiedono, in sostanza, di far cadere il pericolo di inquinamento probatorio prorogato dal gip di altri tre mesi. Anche in caso di accoglimento della richiesta, comunque, Binda resterebbe in carcere per pericolo di fuga e il rischio di reiterazione del reato.
Binda ha affermato davanti al collegio del Riesame, presieduto da Cesare Tacconi, nell’udienza a porte chiuse che “lui è innocente, che non ha inquinato le prove e non potrebbe farlo”, come hanno spiegato i suoi legali. Per la difesa, Binda dovrebbe affrontare il processo “da uomo libero, perché gli inquirenti possono fare tutto anche senza tenerlo dentro, non c’è bisogno di lasciarlo in carcere”. Da tutto ciò che è stato depositato agli atti finora, hanno chiarito i difensori, “non c’è nulla che lo leghi all’omicidio e che renda sussistente il pericolo di inquinamento probatorio”, esigenza cautelare prorogata dal gip di Varese di altri tre mesi. Restano ferme, invece, le altre due esigenze cautelari e, tra l’altro, la Cassazione nei mesi scorsi ha confermato l’ordinanza di custodia cautelare respingendo un ricorso della difesa.
Tra le prove a carico di Binda c’è l’inquietante lettera-poesia ‘In morte di un’amica‘(leggi) scritta, secondo l’accusa e in particolare secondo una testimonianza di un’amica dell’uomo, dal presunto killer e inviata ai familiari di Lidia Macchi il giorno dei funerali quasi trent’anni fa. Nel frattempo, nell’ambito dell’inchiesta sul cold case, riaperta dal sostituto pg Manfredda, un pool di esperti sta analizzando i reperti trovati sulla salma di Lidia, riesumata nei mesi scorsi, e anche alcuni coltelli ritrovati in un parco. Il legale della famiglia Macchi, l’avvocato Daniele Pizzi, tra l’altro, ha preannunciato la richiesta di effettuare nuove ricerche dell’arma del delitto nei boschi di Cittiglio, il paese in provincia di Varese dopo nel gennaio 1987 fu trovato il cadavere giorni dopo la scomparsa della studentessa universitaria che frequentava Comunione e Liberazione (leggi).
“Binda – hanno spiegato i difensori – è una persona semplice ma anche di cultura che è sempre rimasta nel suo paese e si vede anche dai dati del suo telefono che si è sempre occupato di attività sociali, è un filosofo, ha vinto anche un concorso da ricercatore a Pisa e contro di lui ci sono solo ipotesi teoriche e non prove”. Inoltre, Binda, che era un amico di Lidia, “ha collaborato alle indagini dando subito il suo dna e tutti i numeri per accedere ai suoi telefoni e pc”. Ora, hanno aggiunto, “è molto provato, ha perso 18,5 kg da quando sta in carcere”. E’ detenuto a San Vittore.